Tregua, l’ultima speranza

by redazione | 25 Luglio 2014 9:06

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LA tregua e la pace sono due modi per così dire filosofici di immaginare e maneggiare il mondo. Non è detto che stiano in successione fra loro, così che la tregua preceda e prepari la pace. Spesso, sempre più spesso, la tregua sostituisce la pace, la rattoppa e si rassegna alla sua assenza. A unire comunque i due termini sta la dipendenza comune dalla guerra. Tregua e pace appaiono i due modi di opporsi alla guerra, e la guerra appare come la tentazione, se non la condizione, prevalente della convivenza umana.
LE CRONACHE di questi giorni rinunciano a star dietro al fantasma della pace, e inseguono invece le peripezie delle tregue auspicate, mancate, firmate e violate: la spola di Kerry fra Egitto Israele e Palestina, gli appelli e gli orpelli telefonici attorno all’Ucraina, le cerimonie retoriche e diplomatiche ginevrine sulla Siria… Non si riesce a far rispettare una tregua di 5 ore, e si vorrebbe ottenere una pace? Ci si può spingere a pensare che la pace sia meno ardua che una modesta tregua, e che i piccoli passi siano un mito che riporta sempre le cose al punto di partenza. In realtà la tregua è la scelta sempre più obbligata di un mondo in cui, per trasferire un’immagine del papa Francesco, prevale la chirurgia da campo. I nostri antenati dicevano, piuttosto che far la pace, “fare le paci”, e intendevano per un verso che ne occorressero altrettante quante erano le fazioni avverse o addirittura le persone, per l’altro verso che bisognasse prima di tutto separare i contendenti, esser pronti a intromettersi fra loro. Francesco d’Assisi era un campione del fare le paci, e può darsi che il papa omonimo senta il divario con la sua visita in Terrasanta e gli incontri subito frustrati nei giardini vaticani.
La divaricazione crescente fra tregua e pace, fra l’ospedale da campo e la medicina curativa o, ancora più lontana, preventiva, è uno scacco della politica, se la politica è l’arte del governo. Ma la politica è stata piuttosto l’arte della guerra, e oggi, quando la vera grande guerra non si può fare (il che non assicura che non si faccia, e buonanotte a tutti) la politica non sa essere né l’arte della guerra né della pace, e batte in ritirata davanti alle innumerevoli guerre locali e civili, e si adatta ai panni di una povera arte della tregua. Ci riuscisse, almeno.
La tregua, oggi, prima d’esser rifiutata o violata, è irrisa. Lo fu già in passato, per un’altra ragione, più fiera e meno cinica. «Alto a cavallo, mentre il sol dilegua / dietro ai templi dell’Urbe, alla Coorte / Garibaldi parlò: “Nessuna tregua!…”». Sono versi delle Rapsodie garibaldine del risorgimentista Giovanni Marradi. I nostri eroi erano così, la tregua era alle loro orecchie sinonimo di viltà, di cedimento. Ancora il leggendario capo della Resistenza urbana nei Gap, i Gruppi di Azione Patriottica, Giovanni Pesce, nel 1967 intitolò così le sue memorie: Senza tregua. Su quella scorta combattenti fuori tempo intitolarono a loro volta «Senza tregua» il proprio desiderio d’oltranza. Nello sdegno verso la tregua si potrebbe ravvisare una variazione del famoso contrasto fra trattativa e fermezza, se non fosse ora di archiviarlo.
Oggi si rincorre la speranza spicciola di una tregua. Che si rassegnino a tacere un giorno, un’ora, le armi a Gaza, così da raccogliere morti e soccorrere feriti. Che si aprano in Siria corridoi umanitari — che stanno allo spazio come la tregua e la moratoria al tempo — dai quali far filtrare vaccini antipolio, farmaci, pane. Che si sospendano scontri e agguati nell’est ucraino. E così via. Altrove, con altri capitani di sventura, nemmeno parlarne, di tregua, nell’Iraq del califfo, nella Nigeria di Boko Haram.
Per noi la parola tregua è legata a Primo Levi, e al suo libro più famoso, grazie alla scuola e al film di Francesco Rosi, La tregua. Lo si descrive come il racconto del ritorno,
di un’uscita a riveder le stelle, mentre Se questo è un uomo, e più I sommersi e i salvati, sono il verbale di una caduta nell’abisso. Tuttavia nel tempo sospeso della tregua, della risalita e perfino dell’allegria e della speranza, Levi addita un significato via via più largo, fino ad abbracciare e ingoiare tutta l’esistenza umana. «Esistono remissioni, “tregue”, come nella vita del campo l’inquieto riposo notturno; e la stessa vita umana è una tregua, una proroga ; ma sono intervalli brevi, e presto interrotti».
Ma se la vita stessa è una tregua, vuol dire che la morte viene dopo ma anche prima, che la vita è un’interruzione della morte, e che la pace è un’interruzione della guerra. «Ma la guerra è finita — obiettai: e la pensavo finita, come in quei mesi di tregua, in un senso molto più universale di quanto si osi pensare oggi. — Guerra è sempre — rispose memorabilmente Mordo Nahum». Il nostro mondo è paradossale: ha un’aria balordamente spensierata, e insieme si adatta a un realismo che sconfina nel cinismo.
A cent’anni dalla prima Sarajevo, la nozione storiografica di una lunga guerra europea che va dal 1914 al 1945 è senso comune: non sono le due guerre dichiarate mondiali a interrompere la pace, ma l’intervallo fra il ‘18 e il ‘39 a interrompere l’unica guerra, tregua e insieme incubazione. Una visione analoga potrebbe applicarsi, non più cronologicamente ma geograficamente, al mondo d’oggi, un pianeta di guerre interrotte — provvisoriamente? — da spazi di pace. L’Europa soprattutto, che ha creduto di meritare, grazie alla lezione del 1945, il Nobel continentale per la pace, nonostanti Caucaso e Balcani e ora Ucraina; l’Europa che ha 28 eserciti, dunque nessuno. Quanto alla convenzione della tregua olimpica, Putin ha fatto coincidere le Olimpiadi caucasiche di Sochi con la prodezza imperiale ucraina.
È curioso come il pessimismo tragico sulla calma e la labilità della tregua, la metafora di Levi, sfiori involontariamente il pessimismo realpolitiker che, come in Henry Kissinger, pensa che la pace non possa essere altro che una dilazione della guerra. Una tregua, in sostanza: come la vita del 91enne ex Segretario di stato, appena operato per un’ennesima volta al cuore… Era già l’opinione di Talleyrand, e, prima e senza mondanità, di Niccolò Machiavelli: le inveterate inimicizie fra le famiglie «ancora che le non finissero per pace, si componevano per triegue» .
La tregua è preziosa. Come nel gioco infantile in cui, prima di soccombere, si grida: Pace. Come la mano battuta sul tappeto della gara di lotta che sta diventando micidiale. Ma chi ha conosciuto le tregue sa come siano insidiate dall’angoscia della rottura: davvero si potrà camminare lungo il viale senza che i cecchini aprano il fuoco? Che si possa andare a far provvista di acqua senza essere investiti a tradimento dalla pioggia di granate? Sedere nella cucina senza che un bombardamento incenerisca la casa? La tregua è provvisoria e aleatoria. In quel laboratorio disgraziato di tregue che è il Vicino Oriente, all’avvicinarsi dell’ora del cessate il fuoco concordato si moltiplicava la potenza di fuoco, come ci si ubriacherebbe a morte la notte prima dell’entrata in vigore del proibizionismo.

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