La spinta delle lobby Usa Cosi? decollano gli F35

La spinta delle lobby Usa Cosi? decollano gli F35

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Abbiamo un aereo che funziona, prodotto da un consorzio europeo, con ampie ricadute occupazionali e industriali e di fatturato sull’Italia, e «chiudiamo il programma» per affidare il monopolio della nostra difesa aerea ad un progetto americano, di un’azienda americana, che costa di più, non garantisce le stesse ricadute economiche, industriali ed occupazionali, ed in più senza che i nostri militari abbiano in mano le chiavi di accesso del nostro armamento strategico. Come è stato possibile?
Uno squarcio su questa lunga e ricchissima vicenda ci viene oggi dagli Stati Uniti, perchè qualcosa in questo complesso meccanismo si è incrinato. L’esercito americano ha deciso di lasciare a terra tutta la flotta dei suoi Joint Strike Fighter-F35 per ispezionare i motori dopo l’incendio scoppiato a bordo di un velivolo in Florida. L’Aeronautica e la Marina hanno ordinato di fermare tutti i voli dopo l’incendio (l’ennesimo) del 23 giugno alla base aerea Eglin. «Sono stati richiesti ulteriori controlli ai motori degli F-35 e la ripresa dei voli sarà decisa sulla base dell’esito dei controlli e dell’analisi delle informazioni raccolte», ha detto il portavoce del Pentagono, ammiraglio John Kirby.
I fatti non stanno però esattamente in questo modo. Di fronte a numerosi rapporti di volo particolarmente allarmati, e dopo l’ennesimo aumento dei costi da parte del costruttore, il Pentagono – che aveva già sospeso ulteriori acquisti e bloccato in attesa di chiarimenti gli ordini correnti già da un anno – ha richiesto a Pierre Sprey, progettista dell’F16 (il più diffuso e maneggevole caccia Usa) – di esaminare i rapporti dei piloti e confrontarli con le specifiche tecniche richieste e con la realtà degli aerei acquistati. Il rapporto finale è atteso per fine settembre, ma a quanto risulta anche dalle dichiarazioni precedenti, questo aereo «non dovrebbe affatto essere messo in condizione di volare » perché «insicuro per i piloti e inutile per gli scopi richiesti» oltre che «decisamente inferiore ai suoi omologhi di altri costruttori». Tutto questo senza entrare nel merito dei costi e di contratti di appalto.
L’indicazione che l’F35 sia l’unica scelta su cui puntare è di un paio di anni fa. Un’affermazione che nessuno pare mettere in discussione, considerandola come vera, ed accreditata anche dai militari nelle audizioni parlamentari. Tutto nasce da alcune «improvvise e inspiegate» variazioni nei costi dei bilanci delle aeronautiche europee. In Germania ad esempio alla fine di aprile, il Bundesrechnungshof (la Corte dei conti tedesca) afferma che i costi del programma Eurofighter sono in qualche modo fuori controllo e che alla fine la Germania spenderà 60 miliardi di euro per l’aereo, contro i 30 inizialmente previsti.
COSTI LIEVITATI
Conclusioni simili a quelle dei controllori tedeschi sono contenute Management of the Typhoon Project del National Audit Office britannico del marzo 2011 che aveva denunciato l’impennata dei costi del programma, soprattutto per quanto riguarda le spese di gestione e mantenimento.
Con i soldi inizialmente stanziati si sono potuti comprare molti meno aerei del previsto. I britannici circa 160 Typhoon contro i 232 iniziali, i tedeschi 140 invece che 180 a dei prezzi unitari sostanzialmente comparabili: 87milioni di euro gli inglesi, 84 i tedeschi. La metà del costo di un singolo F35.
Numeri che fanno impressione soprattutto perché si sono formati in modo opaco. A un certo punto dalle previsioni di costo del programma italiano, ancora in fase di sviluppo, sparì il Defensive Aids Sub System (Dass), il sottosistema elettronico di difesa, una componente essenziale dell’aereo (per chiarire, sarebbe come acquistare un’auto senza impianto elettrico e considerarlo da parte del costruttore un optional).
Sulla base dei numeri ufficiali, da mesi soprattutto i militari continuano a sostenere l’altrimenti insostenibile bugia che il Typhoon fa meno e costa di più dell’F-35. Stando ai dati del nostro Ministero della Difesa un caccia italiano verrebbe infatti a costare quasi 218 milioni di euro, quasi un quarto di miliardo.
Che il Typhoon sia in grado già oggi, ma ancor più nei prossimi anni, di svolgere l’intera gamma delle operazioni aria-suolo lo dimostra l’impiego massiccio che ne ha fatto la Raf, l’aeronautica britannica, in Libia, e l’intenzione della stessa Raf di non ordinare per ora F-35 (è stata annunciato un possibile acquisto di 48 velivoli della versione F-35B a decollo corto e atterraggio verticale), tanto che sta già convertendo alcuni reparti dotati del cacciabombardiere Tornado sul nuovo Typhoon. Non risulterebbe fondato inoltre che per dare ai Typhoon la capacità di attacco al suolo sarebbero serviti ulteriori finanziamenti. Tutti i contratti di sviluppo sono già stati finanziati, compresi quelli per il completamento della tranche 3 del velivolo. Finanziati anche dall’Italia, tanto che il primo Typhoon tranche 3 di produzione Alenia è uscito il 4 marzo dalla linea di montaggio di Caselle e sarà consegnato la prossima estate all’Aeronautica Militare. E anche le prove di volo che si stanno svolgendo per certificare l’impiego del missile Storm Shadow (un missile capace di 400 chili di esplosivo trasportato a 500 chilometri di distanza) a bordo del Typhoon si sono svolte a Decimomannu, in Sardegna, con aerei italiani del reparto Sperimentale di Volo di Pratica di Mare. Appare quindi quantomeno singolare che gli stessi vertici della Marina e dell’Aeronautica italiani smentiscano gli esiti di test condotti in proprio. Secondo il Washington Post, Lockheed Martin, General Dynamics e Raytheon hanno speso nel 2011 oltre 34 milioni di dollari in attività di lobbying nei soli Stati Uniti e solo nella politica federale, con un incremento del 10% rispetto al 2010. La sola Lockheed Martin ha incrementato la propria spesa in un solo anno del 19%. General Dynamics (produttore di carri armati Abrams e dei jet Gulfstream) ha speso 11,3 milioni dollari in lobbying con un incremento del 4,6 per cento. Raytheon (il più grande produttore di missili al mondo) ha speso 7,1 milioni dollari, con un aumento del 2,9 per cento. Northrop Grumman (che produce il drone Global Hawk) ha speso 12,8milioni dollari nel 2011.
LE FORBICI DI OBAMA
Secondo Michael Herson, presidente di American Defense International, una società di lobbying del settore, le aziende della difesa hanno concentrato la loro attività di lobbying sulla protezione dei contratti e programmi esistenti dai tagli immediati. Un aiuto a comprendere cosa sia successo ce lo offre un’analisi compiuta da Sheila Krumholz, a capo di OpenSecrets.org, un’organizzazione che pubblica e rende noti i contributi delle aziende private alle lobby, e quelli di queste ultime ai singoli partiti e politici. In più Open Secrets «fa i nomi», ed indica anche con due categorie, non solo chi sono i lobbisti, ma anche chi sono i politici pagati dalle lobby, con quali cifre, e i «Revolving Door profile» – ovvero politici, congressisti, senatori, ma anche dipendenti degli enti pubblici, che passano indistintamente e ciclicamente come in una porta girevole dal settore pubblico (spesso acquirente) al privato (normalmente fornitore). Secondo i report il Carlyle Group (che ha nel suo board Bush padre e figlio, e tra gli azionisti la famiglia Bin Laden) conta ben 85 lobbisti e 44 «revolvers» (il 52%).
La Lockheed Martin opera di concerto con altre tre strutture: Bae Systems North America, Carlyle Group e United Defense. Ha sempre avuto dal 1990 una media di spesa di 5 milioni di dollari per spese di lobbying a Washington, tranne tra il 1999 e il 2000 in cui si è avuta un’impennata a 16 milioni l’anno. Livelli tornati «normali» sino al 2008, quando l’amministrazione Obama ha deciso un taglio complessivo della spesa militare di circa 1000 miliardi di dollari in 10 anni. I volumi delle spese di lobbying sono quindi risaliti a 19 milioni l’anno. L’unico programma sino ad oggi sostenuto destinato all’esportazione e al mantenimento dei contratti in essere è proprio l’F35, che assicura lauti fatturati di produzione e manutenzione proprio a Lockheed Martin, General Dynamics e Raytheon, nonchè a Bae Systems North America, Carlyle Group e United Defense.
Dal 2008 in tutta Europa la Nato mette in discussione il programma Eurofighter.
Lo fanno per primi i generali americani a capo delle strutture, prima di andare in pensione e rientrare nel settore privato come consulenti con stipendi a sette cifre. Lo fanno i governi delle regioni in cui sono presenti le basi di assemblaggio dell’aereo europeo, cui vengono assicurati sulla carta contratti che bilancino le perdite occupazionali dovute all’abbandono del progetto europeo, anche se i nuovi contratti hanno numeri equivalenti «solo sulla carta». Lo fanno alcuni smembri dello Stato Maggiore che cominciano a parlare improvvisamente di «un solo aereo militare possibile», senza alcuna altra alternativa, mentre nei bilanci di previsione della manutenzione delle varie aeronautiche i costi per l’aereo europeo cominciano ad apparire esponenziali, senza alcun riscontro contabile e senza alcuna motivazione. Ciò che sino a ieri costava 80 milioni, risulta in previsione per l’anno successivo a 212 milioni, tanto da far apparire un affare l’F35, anche se costa 160milioni di dollari. In ballo tuttavia non c’è solo un appalto – anche se parliamo del più grande appalto militare della storia, stimato in circa 1.600 miliardi di dollari in 40 anni -ma c’è l’intero impianto della sicurezza Nato. Un sistema nel quale gli Stati Uniti, indipendentemente dal numero di aerei acquistati o effettivamente in volo, avranno in mano l’intera infrastruttura di attacco e difesa aerea dell’Occidente, senza alternative. Per l’industria bellica americana c’è in ballo la possibile distruzione di qualsiasi alternativa a se stessa in un settore così strategico per l’innovazione tecnologica nel suo complesso che, una volta smantellato, sarà inimmaginabile ricostruire. Chiunque fosse tra i fornitori del programma Eurofighter è stato «importato» con promesse di lavoro e fatturato nel nuovo progetto, o è stato acquisito essendo in ballo anche le forniture tecniche nel settore dell’aviazione civile. La partita degli F35 è dunque la madre di tutte le partite di geopolitica e controllo strategico in Occidente, teoricamente tra alleati, dalla seconda guerra mondiale, destinata a tracciare i rapporti di forza militari ed industriali del prossimo secolo.



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