Perché Gaza è sola?
Non voglio parlare nel merito di quanto sta accadendo a Gaza. Non ne voglio scrivere perché provo troppo dolore a dover per l’ennesima volta emettere grida di indignazione, né ho voglia di ridurmi ad auspicare da anima buona il dialogo fra le due parti, esercizio cui si dedicano le belle penne del nostro paese. Come si trattasse di due monelli litigiosi cui noi civilizzati dobbiamo insegnare le buone maniere. Per non dire di chi addirittura invoca le ragioni di Israele, così vilmente attaccata — poveretta — dai terroristi. ( I palestinesi non sono mai «militari» come gli israeliani, loro sono sempre e comunque terroristi, gli altri mai).
Ieri ho sentito a radio Tre, che ricordavo meglio delle altre emittenti, una trasmissione cui partecipavano commentatori davvero indecenti, un giornalista (Meucci o Meotti, non ricordo) che conteggiava le vittime palestinesi: che mascalzonata le menzogne degli antistraeliani, tutti dimentichi dell’Olocausto – protestava. Perchè non è vero che i civili morti ammazzati siano due terzi, tutt’al più un terzo.
E poi il «Foglio» che promuove una manifestazione di solidarietà con le vere vittime: gli israeliani, per l’appunto.
Si può non essere d’accordo con la linea politica di Hamas – e io lo sono — ma chi la critica dovrebbe poi spiegare perché allora né Netanyahu, né alcuno dei suoi predecessori, si sia accordato con l’Olp ( e anzi abbia sempre insidiato ogni tentativo di intesa fra Hamas e Abu Mazen, per mandarla per aria). E però io mi domando: se fossi nata in un campo profughi della Palestina, dopo quasi settant’anni di soprusi, di mortificazioni, di violazione di diritti umani e delle decisioni dell’Onu, dopo decine di accordi regolarmente infranti dall’avanzare dei coloni, a fronte della pretesa di rendere la Palestina tutt’al più un bantustan a macchia di leopardo dove milioni di coloro che vi sono nati non possono tornare, i tanti cui sono state rubate le case dove avevano per secoli vissuto le loro famiglie, dopo tutto questo: che cosa penserei e farei? Io temo che avrei finito per diventare terrorista.
Non perché questa sia una strada giusta e vincente ma perché è così insopportabile ormai la condizione dei palestinesi; così macroscopicamente inaccettabile l’ingiustizia storica di cui sono vittime; così filistea la giustificazione di Israele che si lamenta di essere colpita quando ha fatto di tutto per suscitare odio; così palesemente ipocrita un Occidente (ma ormai anche l’oriente) pronto a mandare ovunque bombardieri e droni e reggimenti con la pretesa di sostenere le decisioni delle Nazioni Unite, e che però mai, dico mai, dal 1948 ad oggi, ha pensato di inviare sia pure una bicicletta per imporre ad Israele di ubbidire alle tante risoluzioni votate nel Palazzo di Vetro che i suoi governi, di destra o di sinistra, hanno regolarmente irriso.
Ma non è di questo che voglio scrivere, so che i lettori di questo giornale non devono essere convinti. Ho preso la penna solo per il bisogno di una riflessione collettiva sul perché, in protesta con quanto accade a Gaza, sono scesi in piazza a Parigi e a Londra, cosa fra l’altro relativamente nuova nelle dimensioni in cui è accaduto, e nel nostro paese non si è andati oltre qualche presidio e volenterose piccole manifestazioni locali, per fortuna Milano, un impegno più rilevante degli altri.
Cosa è accaduto in Italia che su questo problema è stata sempre in prima linea, riuscendo a mobilitare centinaia di migliaia di persone? È forse proprio per questo, perché siamo costretti verificare che quei cortei, arrivati persino attorno alle mura di Gerusalemme (ricordate le «donne in nero»?) non sono serviti a far avanzare un processo di pace, a rendere giustizia? Per sfiducia, rinuncia? Perché noi — il più forte movimento pacifista d’Europa – non siamo riusciti ad evitare le guerre ormai diventate perenni, a far prevalere l’idea che i patti si fanno con l’avversario e non con l’alleato perché l’obiettivo non è prevalere ma intendersi? O perché – piuttosto — non c’è più nel nostro paese uno schieramento politico sufficientemente ampio dotato dell’autorevolezza necessaria ad una mobilitazione adeguata? O perché c’è un governo che è stato votato da tanti che nelle manifestazioni del passato erano al nostro fianco e che però non è stato capace di dire una parola, una sola parola di denuncia in questa tragica circostanza? Un silenzio agghiacciante da parte del ragazzo Renzi che pure ci tiene a far vedere che lui, a differenza dei vecchi politici, è umano e naturale? Privo di emozioni, di capacità di indignazione, almeno quel tanto per farsi sfuggire una frase, un moto di commozione per quei bambini di Gaza massacrati, nei suoi tanti accattivanti virtuali colloqui con il pubblico? È perché non prova niente, o perché pensa che le sorti dell’Italia e del mondo dipendano dal fatto che la muta Mogherini assurga al posto di ministro degli esteri dell’Unione Europea? E se sì, per far che?
Di questo vorrei parlassimo. Io non ho risposte. E non perché pensi che in Italia non c’è più niente da fare. Io non sono, come invece molti altri, così pessimista sul nostro paese. E anzi mi arrabbio quando, dall’estero, sento dire: «O diomio l’Italia come è finita», e poi si parla solo di quello che fa il governo e non ci si accorge che c’è ancora nel nostro paese una politicizzazione diffusa, un grande dinamismo nell’iniziativa locale, nell’associazionismo, nel volontariato.
Negli ultimi giorni sono stata a Otranto, al campeggio della «Rete della conoscenza» (gli studenti medi e universitari di sinistra). Tanti bravi ragazzi, nemmeno abbronzati sebbene ai bordi di una spiaggia, perché impegnati tutto il giorno in gruppi di lavoro, alle prese con i problemi della scuola, ma per nulla corporativi, aperti alle cose dell’umanità, ma certo privi di punti di riferimento politici generali, senza avere alle spalle analisi e progetti sul e per il mondo, come era per la mia generazione, e perciò vittime inevitabili della frammentazione. Poi ho partecipato a Villa Literno alla bellissima celebrazione del venticinquesimo anniversario della morte di Jerry Maslo, organizzata dall’Arci, che da quando, nel 1989, il giovane sudafricano, anche lui schiavo nei campi del pomodoro, fu assassinato ha via via sviluppato un’iniziativa costante, di supplenza si potrebbe dire, rispetto a quanto avrebbero dovuto fare le istituzioni: villaggi di solidarietà nei luoghi di maggior sfruttamento, volontariato faticoso per dare ai giovani neri magrebini e subsahariani, poi provenienti dall’est, l’appoggio umano sociale e politico necessario.
Parlo di queste due cose perchè sono quelle che ho visto negli ultimi giorni coi miei occhi, ma potrei aggiungere tante altre esperienze, fra queste certamente quanto ha costruito la lista Tsipras, che ha reso stabile, attraverso i comitati elettorali che non si sono sciolti dopo il voto, una inedita militanza politica diffusa sul territorio.
E allora perché non riusciamo a dare a tutto quello che pure c’è capacità di incidere, di contare?
Certo, molte delle risposte le conosciamo: la crescente irrilevanza della politica, il declino dei partiti, eccetera eccetera. Non ho scritto perché ho ricette, e nemmeno perché non conosca già tante delle risposte. Ho scritto solo per condividere la frustrazione dell’impotenza, per non abituarsi alla rassegnazione, per aiutarci l’un l’altro «a cercare ancora».
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