Le offerte deboli di Juncker

Le offerte deboli di Juncker

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Quat­tor­dici pagine per dieci punti pro­gram­ma­tici, que­sto il docu­mento con cui Jean-Claude Juncker ha otte­nuto il via libera degli euro­de­pu­tati alla sua nomina a Pre­si­dente della Com­mis­sione euro­pea. Inu­tile dire che l’attesa era grande, dopo sei anni di crisi dell’eurozona e di poli­ti­che eco­no­mi­che fal­li­men­tari che hanno appro­fon­dito la reces­sione e por­tato la disoc­cu­pa­zione in molti stati mem­bri a livelli mai cono­sciuti da dopo la seconda guerra mondiale.

Pur­troppo, chi nutriva la spe­ranza che l’Europa potesse “cam­biare verso” dovrà aspet­tare il pros­simo giro. Il docu­mento di Junc­ker è essen­zial­mente il risul­tato di un copia e incolla – in alcuni casi let­te­rale – delle ultime comu­ni­ca­zioni della Com­mis­sione euro­pea e con­clu­sioni del Con­si­glio Europeo.

«Un nuovo impeto per l’occupazione, la cre­scita e gli inve­sti­menti» così ini­zia il docu­mento e potrebbe sem­brare inco­rag­giante se non fosse che il para­grafo sot­to­stante smen­ti­sce qua­lun­que ambi­zione. Juncker auspica di “mobi­li­tare” fino a 300 miliardi di euro in 3 anni in inve­sti­menti – pub­blici e pri­vati — nell’economia reale senza però for­nire alcun det­ta­glio su come dovreb­bero essere finan­ziati, a parte uno sbri­ga­tivo rife­ri­mento ad un pos­si­bile incre­mento del capi­tale della Banca euro­pea degli Inve­sti­menti (Bei).

Il pro­blema è che la Bei for­ni­sce un soste­gno finan­zia­rio (par­ziale) a pro­getti d’investimento attra­verso la media­zione di ban­che nazio­nali, ciò pre­sume che esi­stano capi­tali pri­vati pronti ad essere inve­stiti e ban­che nazio­nali dispo­ste ad assu­mersi parte del rischio. Poten­ziare il capi­tale della Bei signi­fica miglio­rare le con­di­zioni del cre­dito, dal lato dell’offerta. Pur­troppo ciò che manca oggi è la domanda, per­ché le attese eco­no­mi­che nega­tive man­ten­gono depressa l’iniziativa pri­vata. Che l’impronta ideo­lo­gica “offer­ti­sta” non sia cam­biata lo con­ferma anche il rin­no­vato appello alla dere­go­la­men­ta­zione per «creare un posi­tivo clima impren­di­to­riale». La parola “domanda” non appare nep­pure una volta, nono­stante per­sino il Fmi abbia chie­sto all’Eurogruppo di fare di più per la domanda aggregata.

Ma è forse il capi­tolo sull’Unione mone­ta­ria quello in cui Junc­ker dimo­stra la sua agenda di retro­guar­dia. Sarebbe bastato ricor­dare la debo­lezza intrin­seca di un’Unione mone­ta­ria priva di un vero pre­sta­tore di ultima istanza e di un bilan­cio fede­rale, citando ciò che la stessa Com­mis­sione euro­pea diceva prima dell’introduzione dell’euro. Forse sarebbe stato troppo aspet­tarsi da Juncker un discorso simile a quello pro­nun­ciato dal Com­mis­sa­rio all’Occupazione Laszlo Andor qual­che set­ti­mana fa sull’inevitabile ten­denza dell’Unione mone­ta­ria incom­pleta a sca­ri­care sui lavo­ra­tori il peso degli aggiu­sta­menti di com­pe­ti­ti­vità – in ter­mini di mag­giore disoc­cu­pa­zione e ridu­zione dei salari. Juncker, invece, nella migliore tra­di­zione di Bar­roso e Rehn, pone l’accento sulle mito­lo­gi­che “riforme strut­tu­rali”, die­tro le quali si nasconde la solita ricetta di pre­ca­riz­za­zione del lavoro in osse­quio alla teo­ria per la quale la rigi­dità dei salari non per­mette l’ottimale allo­ca­zione delle risorse. Una teo­ria empi­ri­ca­mente indi­mo­stra­bile e di con­se­guenza ottimo appi­glio per gli uomini di fede, come Junc­ker. I lavo­ra­tori euro­pei nel frat­tempo dovranno appi­gliarsi alla spe­ranza che cin­que anni pas­sino in fretta.



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