Libia, la guerra tra clan affonda il paese
A QUASI TRE anni dalla morte di Muhammar Gheddafi la Libia continua a dibattersi, tra scossoni e scontri, in lunga fase di transizione violenta e caotica. Gli attacchi delle ultime ore, che hanno portato perfino la missione Onu a lasciare il paese, sono stati innescati da una fazione minoritaria fra le milizie islamiche che si appoggiano ai potenti clan di Misurata, la città martire della rivoluzione. Un gruppetto di miliziani legati al deputato misuratino Salah Badi da domenica ha infatti dato l’assalto alla milizia di Zintan che controllava l’aeroporto internazionale di Tripoli. Gestire lo scalo della capitale significa molto sia in termini di influenza politica che di controllo di vari traffici commerciali, legali e illegali (ingresso di armi, droga e beni di contrabbando). Il governo provvisorio del premier Al Thinni era riuscito a raggiungere un accordo con la milizia “laica” di Zintan per trasferire
l’aeroporto all’esercito, ma in questa fase una frazione delle milizie di Misurata, appunto quella di Salah Badi, si è fatta avanti per provare a mettere le mani sulle piste e sui voli.
Gli scontri sono andati avanti da domenica notte, ci sarebbero stati almeno 35 morti e 120 feriti. Sono stati colpiti da razzi e proiettili la torre di controllo e una decina di aerei della Libyan Airlines e di Afriqyia, le due più importanti compagnie aeree libiche. Secondo alcune fonti sentite dall’agenzia Agi a questo punto gli islamisti potrebbero dimostrarsi soddisfatti: l’aeroporto internazionale è bloccato, rimane aperto l’altro aeroporto, quello di Mitiga, quasi al centro di Tripoli, che però è controllato da altre milizie integraliste.
«Il problema è che adesso le milizie di Zintan, molto potenti militarmente e politicamente influenti nel campo “laico”, potrebbero cercare la vendetta e il riscatto, potrebbero riaprire i combattimenti per andare a conquistarsi l’aeroporto di Mitiga », dice una fonte diplomatica a Tripoli. Sarebbe quindi in corso una mediazione guidata dagli ambasciatori europei, dall’inviata americana e dai pochi
arabi rimasti a Tripoli per scongiurare nuove ritorsioni militari e per fermare il ciclo delle violenze.
La partenza di tutto il personale diplomatico delle Nazioni Unite è ovviamente un segnale molto negativo: qualcuno a Tripoli ha parlato di «fuga dell’Opo), nu», ma i diplomatici delle Nazioni Unite (a partire dall’inviato libanese Mitri) sono stati minacciati pesantemente dalle fazioni integraliste proprio per i loro tentativi di mediazione. Gli integralisti più agguerriti vogliono il caos e vogliono che gli stranieri lascino il paese: i prossimi
che avrebbero rapito o fatto saltare in aria erano proprio gli uomini Onu.
Ieri in alcune riunioni fra Palazzo Chigi e ministero degli Esteri si è valutata anche l’evacuazione dell’ambasciata d’Italia guidata da Giuseppe Buccino: i piani sono pronti (da tempo al largo incrociano varie navi della Marina militare, ma per il momento il governo italiano prova a resistere.
Il governo Al Thinni ha diffuso un comunicato che evoca la possibilità di una missione militare Onu per stabilizzare il paese: «Stiamo valutando l’opzione di una richiesta di aiuto a forze internazionali che sul terreno ristabiliscano la sicurezza e consentano al governo di imporre la propria autorità», dice il premier. Molti paesi, a partire da quelli europei, hanno paura a far rimettere piede in Libia ai loro militari. Ma, come dice una fonte politica a Palazzo Chigi, «dovremo occuparci di Libia 24 ore su 24, non ci sono alternative possibili».
Paradossalmente, alla fine dal marasma libico potrebbe profilarsi uno sbocco positivo — quello richiesto dalla stragrande maggioranza del popolo libico — ovvero la creazione di uno Stato laico, ispirato fortemente all’Islam, ma lontano da fondamentalismi e integralisti. Per il momento però questi ultimi combattono duramente per imporre il loro punto di vista.
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