by redazione | 19 Luglio 2014 10:26
GERUSALEMME — Guardare a nord per colpire a sud. A metà novembre del 2012 Benjamin Netanyahu, già allora premier, visita le alture del Golan assieme a Ehud Barak, ministro della Difesa e soldato più decorato della storia di Israele. Mentre i binocoli dei due politici osservano le postazioni siriane da dove sono partiti alcuni colpi di artiglieria, i mirini dei droni sono già puntati sul vero obiettivo: Ahmed Jaabari, comandante in capo dell’esercito irregolare di Hamas. E’ appena tornato dal pellegrinaggio alla Mecca, crede che la calma apparente sia reale, allenta le misure di sicurezza: la sua auto viene centrata da un missile e cominciano otto giorni di guerra.
Da martedì, da quando è fallito il tentativo dei generali egiziani di far ingoiare a Hamas il cessate il fuoco e la carta su cui sta scritto, il governo israeliano dà il via a una serie di mosse per depistare i leader fondamentalisti. Accetta di inviare al Cairo una delegazione che provi a negoziare la calma, lascia intendere di sostenere i tentativi del presidente palestinese Abu Mazen, diffonde gli umori di Netanyahu come fumogeni di copertura: il primo ministro minaccia, minaccia ma vuole evitare l’invasione di terra.
In realtà — ricostruisce Barak Ravid sul quotidiano locale Haaretz — il consiglio di sicurezza vota il sì all’offensiva già nella notte tra martedì e mercoledì. Al mattino Yoram Cohen, capo dello Shin Bet, Isaac Molho, avvocato e consigliere di Netanyahu , Amos Gilad, alla guida del dipartimento Affari militari—politici, partono per l’Egitto, dove condividono l’iftar (il pasto che alla sera rompe la giornata di digiuno durante il mese di Ramadan) con Mohammed Ahmed Farid Al Tohami, il generale che comanda i servizi segreti. Tornano in Israele dopo aver digerito il messaggio trasmesso dai boss di Hamas: se non vengono soddisfatte le nostre richieste, continuiamo a sparare razzi sulle vostre città. La trattativa è per ora chiusa.
Eppure una fonte del governo lascia trapelare alla Bbc che il giorno dopo, alle 6 di venerdì, il cessate il fuoco sarebbe entrato in vigore, l’intesa è stata trovata. Nel gioco delle parti Avigdor Lieberman, il ministro degli Esteri, continua a interpretare il suo ruolo, smentisce che ci sia un accordo, per lui il conflitto va avanti. E’ quello che vuole, sono settimane che preme e spreme Netanyahu perché dia l’ordine alla fanteria di entrare nella Striscia di Gaza. Di più: vuole rioccuparla e destituire i fondamentalisti che ne hanno tolto il dominio ad Abu Mazen nel giugno di sette anni fa con un golpe.
Per cinque ore giovedì la calma ritorna a Gaza. Le Nazioni Unite hanno ottenuto da Israele una pausa umanitaria nei bombardamenti, i palestinesi possono uscire dalle case dove sono rimasti rintanati per dieci giorni, andare al mercato e accumulare scorte di cibo, sembrano le prove generali per la fine degli scontri. Tra le 10 e le 15 anche i comandanti di Hamas fermano i lanci di missili ma è in quella mattina che il commando di 13 miliziani sbuca in un campo dall’altra parte della barriera pronti ad assaltare un kibbutz: vengono neutralizzati dai soldati. Netanyahu, dopo aver confermato in diretta televisiva il via all’attacco di terra, ripete che è stato quel raid dalla galleria sotterranea a convincerlo: «Dobbiamo distruggere i loro tunnel del terrore». La decisione era già stata presa tre giorni prima.
Da quando Israele ha lasciato la Striscia con il ritiro unilaterale le operazioni militari sono già state quattro, la prima nel 2006 poche ore dopo il rapimento del caporale Gilad Shalit. I ministri che oggi spingono per riprendere il controllo di Gaza sono gli stessi politici che nove anni fa si erano opposti alla decisione di Ariel Sharon. Naftali Bennett, il ministro dell’Economia, allora era ancora un imprenditore hi-tech che stava per vendere la sua società per 145 milioni di dollari ma già rinvigoriva l’ideologia dei coloni. Allora Netanyahu si era scontrato con Sharon così duramente da spingere il generale-premier a lasciare il Likud per fondare un nuovo partito. Adesso è lui a non voler tornare a impantanarsi tra le sabbie di Gaza.
Davide Frattini
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