by redazione | 9 Luglio 2014 10:27
GERUSALEMME — I generali avevano previsto che anche Gerusalemme e Tel Aviv sarebbero state bersagliate. Non si aspettavano potesse succedere così presto. Quella che è ancora definita un’operazione militare — chiamata Protective Edge — sembra già una guerra. Le sirene d’allarme sono risuonate a Tel Aviv, seguite dal botto dei missili Iron Dome che intercettano i proiettili lanciati dalla Striscia di Gaza. Anche i sobborghi di Gerusalemme sono finiti sotto il bombardamento e una casa è stata colpita.
L’aviazione israeliana ha centrato quasi cento obiettivi a Gaza, i morti sono diciannove. Il governo di Benjamin Netanyahu ha dato il via libera al richiamo di 40 mila riservisti: vanno a sostituire i soldati impegnati in Cisgiordania, che vengono spostati sul fronte sud. Dove le fazioni palestinesi hanno già esibito qualcuna delle «sorprese» che avevano minacciato: cinque miliziani hanno attaccato dal mare un villaggio israeliano confinante con Gaza, un’operazione in stile forze speciali, con gli uomini che strisciano armati fuori dall’acqua. Sono stati intercettati dagli elicotteri israeliani e uccisi.
«Non durerà un giorno e non ne durerà due», commenta Yitzhak Aharonovitch, ministro per la Sicurezza interna durante una visita ad Ashkelon, la città sulla costa che ha subito un bersagliamento continuo. «Se dovremo entrare, non ci fermeremo. Tutte le opzioni sono aperte fino a quando i lanci di razzi non termineranno». Il premier Netanyahu chiede pazienza agli israeliani e gli analisti fanno notare che negli otto anni accumulati in tre mandati non ha mai ordinato un’offensiva di terra. Questa volta potrebbe essere diverso, anche se il consiglio di sicurezza non ha posto tra i suoi obiettivi quello di far cadere Hamas perché l’intelligence militare avverte che l’alternativa potrebbe essere peggiore: il caos e il sopravvento di gruppi ancora più estremisti.
I fondamentalisti già provano a dettare condizioni per la tregua. Propongono di tornare al cessate il fuoco stabilito dopo gli otto giorni di guerra nel novembre del 2012, vogliono la liberazione dei militanti arrestati durante i raid in Cisgiordania delle scorse settimane, chiedono che Israele non interferisca con il governo di unità nazionale palestinese. La risposta di Netanyahu non lascia spazio alle trattative: «Abbiamo aspettato e abbiamo dato loro una via d’uscita perché smettessero di colpirci. Adesso saremo noi a decidere quando smettere».
Il conflitto è cominciato nel giorno in cui il quotidiano liberal Haaretz apriva la sua Conferenza per la pace. L’immagine dei partecipanti che lasciano la sala per correre verso il rifugio è diventata il simbolo dei negoziati falliti. Per ora non hanno funzionato neppure i tentativi di mediazione portati avanti dai servizi segreti egiziani. Due anni fa nel palazzo presidenziale al Cairo sedeva Mohammed Morsi e i Fratelli Musulmani volevano evitare che Hamas subisse troppe perdite. Abel Fattah Al Sisi, il neo-presidente, è meno preoccupato del benessere del movimento fondamentalista, che considera in parte responsabile dei disordini nel Sinai, confinante con la Striscia.
Netanyahu spera di non dover affrontare più fronti allo stesso tempo. La situazione nei quartieri arabi di Gerusalemme sembra più tranquilla, dopo che per una settimana i palestinesi hanno affrontato la polizia: i disordini sono cominciati quando è stato ritrovato il corpo di Mohammed Abu Khudair, rapito e subito ammazzato da un gruppo di estremisti ebrei che voleva vendicare il sequestro e l’uccisione in Cisgiordania di tre ragazzi israeliani.
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