by redazione | 30 Luglio 2014 10:42
JÜRGEN Habermas, che cosa significa per lei — alla sua età, 85 anni — vivere il presente? Quale filo la collega
al mondo dei suoi figli e nipoti?
«Sta pensando a una qualche passione per il presente? Sì, seguo sempre con passione gli sviluppi della politica. D’altro canto, veder schiacciare sul passato della storia la propria generazione fa un po’ l’effetto di uno scuoiamento. Ieri ho ricevuto la prima copia di una mia biografia scritta da Stefan Müller-Doohm.
Anche se la persona dell’autore, di cui ho la massima stima, non me ne darebbe motivo, io ho paura ad affrontare questo libro.
Quanto ai miei figli, che sono già grandi, ho l’impressione che condividano tutto sommato le idee politiche e intellettuali dei loro genitori. Solo i miei nipoti sembrano vivere già in un’altra epoca».
Quali sono state le sue esperienze più importanti, che la hanno indirizzato sul piano intellettuale e sul piano pratico?
«Le esperienze intellettuali si lasciano facilmente ricondurre a determinati personaggi. Il mio primo filosofo l’ho incontrato nella figura di Karl-Otto Apel, che mi è stato prima mentore e poi amico. Lo straordinario privilegio di lavorare con Adorno mi ha fatto toccare da vicino un modo di pensare che è illuminante e affascinante nello stesso tempo. Anche Wolfgang Abendroth e Hans-Georg Gadamer sono stati — per me — come una sorta di ultimi maestri accademici. Ma chiunque sia sposato da sessant’anni e abbia figli, sa che ci sono cose ben più importanti degli stimoli intellettuali».
Internet è un vantaggio o uno svantaggio per la democrazia?
«Né l’una cosa né l’altra. Dopo le invenzioni della scrittura e della stampa la comunicazione digitale rappresenta la terza grande innovazione sul piano dei media. Ma questo non crea automaticamente progresso nella sfera pubblica. Nel corso dell’Ottocento — con l’aiuto dei libri e dei giornali di massa — abbiamo visto nascere delle sfere pubbliche nazionali dove l’attenzione di un numero indefinito di persone poteva applicarsi simultaneamente sugli stessi problemi. Questo è ciò che la rete non sa produrre: distrae e disperde. Pensi ai mille portali che nascono ogni giorno: per collezionisti di francobolli, per studiosi di diritto costituzionale europeo, per ex alcolisti. Nel mare magnum dei rumori digitali queste comunità sono come arcipelaghi dispersi. Ciò che manca loro è il collante inclusivo, la forza di una sfera pubblica che evidenzi quali cose sono importanti. Insomma, non dovrebbero andare perse quelle competenze del buon vecchio giornalismo che sono oggi non meno indispensabili di ieri».
Un grande tema cui lei è appassionato è l’Europa. Parliamo delle tendenze separatiste in Ucraina, Scozia, Belgio. Come mai le ha aspramente criticate, in più occasioni?
«La nazione come sacro principio è stata definitivamente superata alla fine della Prima guerra mondiale. Invece
di promuovere la pace ha fomentato sempre nuovi conflitti. Il motivo è evidente: nessun popolo è etnicamente omogeneo. Tracciare nuovi confini significa semplicemente riprodurre in maniera capovolta i rapporti di maggioranza e minoranza. Quando Genscher ha riconosciuto la Croazia come nuovo stato sovrano, contribuendo alla disgregazione della vecchia Jugoslavia, ha aperto la porta ai più feroci massacri avvenuti in Europa dopo la Seconda guerra. Lo stesso errore si è ripetuto con il Kosovo. Si tratta dell’ombra lunga che il nazionalismo ottocentesco ha gettato sul secolo ventesimo».
Che cosa le fornisce la forza di non reagire in maniera disfattistica a ciò che il suo maestro Adorno chiamava «il cattivo corso del mondo»?
«Contro il cattivo corso del mondo Hegel metteva in campo lo spirito assoluto, laddove Adorno contrastava la disperazione appellandosi a una luce messianica: solo nel cono di questa illuminazione egli poteva denunciare la negatività dell’esistenza. Io mi sento piuttosto vicino alla posizione di Kant, cui Adorno giustamente attribuiva l’”inconcepibilità della disperazione”».
A cosa si deve il suo nuovo interesse per la religione?
«I sociologi hanno individuato nel rito e nel mito la fonte della coscienza normativa e della solidarietà sociale. A
questo io collego la constatazione hegeliana secondo cui molti concetti della filosofia pratica sono il frutto di un secolare processo di assimilazione di concetti della tradizione ebraico-cristiana. Se pensiamo ad autori come Bloch e Benjamin, Buber, Levinas e Derrida, vediamo come questa assimilazione non si sia ancora conclusa. Questo — per un pensiero postmetafisico che si preoccupa delle risorse normative di una società mondiale portata fuori strada dal capitalismo — potrebbe essere l’occasione per cambiare prospettiva. La filosofia dovrebbe sapersi mettere in rapporto non solo con le scienze ma anche con le tradizioni religiose vitali ».
Che giudizio dà lei sullo stato della filosofia oggi? In Germania va sempre più di moda il filosofo da talk show, quello che un tempo si chiamava filosofo popolare. È una cosa buona oppure cattiva?
«Beh, non sono i veri rappresentanti della filosofia tedesca. La filosofia è oggi una professione accademicoscientifica come tutte le altre. Dalle altre discipline si distingue solo per il fatto che — in quanto pensiero non pre-fissabile — non ha un “metodo” e un “oggetto” definibili a priori. Personalmente sono troppo vecchio per pretendere di dare un giudizio complessivo sullo stato attuale della disciplina. Posso però dirle qual è stata la mia esperienza: la mia generazione ha saputo suscitare interesse e trovare riconoscimento, da parte dei colleghi americani, francesi, e talora persino inglesi, solo nella misura in cui — nel trattare i diversi problemi — siamo stati capaci di mostrare la forza della nostra tradizione, attingendo in maniera sistematica e analitica alle fonti di Kant, Hegel e Marx. Oso fare questa raccomandazione sperando di non essere accusabile di provincialismo».
Lei si è sempre richiamato ai filosofi antichi che andavano nell’agorà ed esercitavano l’uso pubblico della ragione. Ma lei passa anche per un filosofo difficile, i suoi testi sono complessi e non facilmente comprensibili. C’è una contraddizione?
«I lettori di questa intervista le daranno subito ragione. Però vede, io non ho mai avuto come obiettivo quello di raggiungere un vasto pubblico. Non vado nemmeno in televisione. Il mio mondo è quello dell’università. Ciò cui io miro non è avere tanti lettori, ma far circolare determinate idee».
Una domanda personale: non le capita mai di svegliarsi la mattina e pensare improvvisamente, come in un incubo, che tutto quanto lei ha finora pensato e scritto sia sbagliato? E se una esperienza simile le è davvero capitata, come la affronta?
«Prima dell’ultimo risveglio precipito nel vortice di pensieri angosciosi, dunque la mia insicurezza potrebbe essere più profonda. Ma se vogliamo dare alla sua domanda un senso meno drammatico, mettendola semplicemente in relazione con i miei lavori accademici, allora le darò una risposta di tipo pragmatico. È naturale che ogni singolo enunciato, da me messo per iscritto, possa rivelarsi sbagliato. Ma lei in realtà si riferisce all’insieme di tutte le certezze-disfondo. Ma questo complesso delle certezze-di-sfondo non può mai essere considerato sbagliato, in quanto non può mai — nel suo insieme — essere fatto oggetto di enunciati falsificabili».
Traduzione di Leonardo Ceppa
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