La guerra in corso deve finire

La guerra in corso deve finire

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Di fronte al pianeta violentato e all’umanità ferita e umiliata che emerge dalle pagine di questo nuovo Rapporto sui diritti globalisi può essere tentati di distogliere lo sguardo, di non voler sapere, di evitare di interrogarsi. La verità è un peso necessario, ma anche faticoso da portare. Non lascia tranquilli, toglie serenità, impone scelte di campo, esige impegno.

Spesso si preferirebbe parlare d’altro, credere alle promesse e ai messaggi rassicuranti che i poteri globali veicolano quotidianamente con i loro insidiosi apparati di propaganda e di condizionamento delle coscienze. Nel 2012 il Rapporto sui diritti globali scriveva che la crisi aveva assunto caratteristiche ed effetti tali che non era esagerato definirla «la prima guerra mondiale della finanza». I dati dei successivi due anni lo stanno confermando con crescente evidenza e drammaticità.

Le “bombe” vengono ora sganciate dalle agenzie di rating e dai colossi finanziari, ma gli effetti non sono diversi da quelli delle armi militari, come ci mostrano i numeri e la fotografia della desolazione sociale provocata in Grecia dalla terapia che lì è stata imposta. Una medicina che non solo è amarissima, ma che si è rivelata (e non era difficile prevederlo, come molte analisi, compresa questa, avevano fatto) peggiore e più letale della malattia stessa. Così, i dati per quel Paese ci parlano di tagli del 35% della spesa sanitaria, del 40% di quella ospedaliera, del fatto che molti farmaci sono diventati a pagamento, impedendo le cure; ci dicono che il 44,3% della popolazione è indebitata con le banche e il 10% ha dovuto vendere la propria casa, così che 150 mila famiglie sono sotto sfratto; ci mostrano un rischio povertà al 30%, con il 10% delle famiglie che non hanno la possibilità di nutrirsi con sufficienza e regolarità; ci testimoniano che il 95% circa delle famiglie ha subito in media una decurtazione del 40% del proprio reddito e che l’occupazione, tra il 2010 e il 2011, è scesa dell’8,6%, mentre i salari sono stati sforbiciati del 30%. Simile e drammatica la situazione in diversi Paesi europei, più fragili strutturalmente o più esposti alle speculazioni dei grandi fondi finanziari.

In Portogallo, con profondi tagli nelle risorse destinate ai servizi sanitari per i dipendenti pubblici, del 30% nel 2012 e di un ulteriore 20% nel 2013, sino all’azzeramento previsto per il 2016; con l’aumento della quota dei costi dei farmaci a carico dei cittadini e il conseguente calo del 20% nell’acquisto di medicinali pur se necessari; con il taglio del 65% del budget dei servizi di
ambulanza per i malati; con la pesante riduzione del contributo alla disoccupazione, del 20% in prima battuta e di un ulteriore 10% dopo sei mesi, limitato a un periodo massimo di 26 mesi invece dei precedenti 38.

In Romania, con il 22% dei cittadini che non si nutre adeguatamente e percentuali di rischio povertà ed esclusione sociale che, sommate, arrivano al 40,3% della popolazione, una percentuale che sale al 49,1% per i minori; con la decimazione dei dipendenti pubblici, uno ogni sette lasciato senza lavoro.

In Irlanda, dove in soli due anni, tra il 2008 e il 2010, la povertà assoluta è cresciuta quasi del 50%, passando dal 4,2% al 6,2%; dove i lavoratori a rischio di povertà sono il 17,3%; dove le spese sociali hanno subito una decurtazione di circa il 10%; dove è stato quasi dimezzato il sussidio per i disoccupati di lunga durata, passato da 188 euro mensili a 100, mentre l’assegno per i figli di genitori indigenti è sceso da 146 a 130 euro la settimana e arriverà a 60 euro nel 2015.

In Spagna, dove è venuto meno l’universalismo dell’assistenza sanitaria, ora garantita solo a chi dispone di un lavoro regolare; dove, tra il 2011 e il 2013, c’è stato un taglio del 66% nei servizi sociali destinati alle fasce più deboli; dove il 27% della popolazione è disoccupata e il 55% dei giovani non ha lavoro.

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Di poco migliori le cifre a quest’ultimo riguardo dell’Italia, che nel marzo 2014 vede la disoccupazione giovanile arrivare al 42,7%, raddoppiata in soli sei anni. Si è giustamente osservato che tali percentuali sono superiori a quelle dei Paesi del Nord Africa che hanno recentemente visto le proteste di massa, chiamate Primavere arabe, con in prima fila proprio i giovani esclusi
dalla possibilità di lavorare. I giovani italiani possono, per fortuna, ancora in parte contare sulla solidarietà e l’aiuto delle famiglie e dei loro risparmi, tuttavia anch’essi velocemente erosi dalla crisi. Così che il prossimo futuro si presenta decisamente cupo, per gli uni e per le altre. Si esauriscono i risparmi e aumenta rapidamente il ricorso a prestiti. Già ora la Banca d’Italia ci dice che, tra il 2003 e il 2011, l’indebitamento medio delle famiglie italiane è passato dal 30,8% al 53,2% del reddito disponibile lordo. E questa è la faccia illuminata, quella del mercato legale e ufficiale. A fianco, prospera quella nascosta e criminale dell’usura, l’ultima stazione prima del precipizio.

Oltre alle famiglie, anche le imprese non trovano più ossigeno per andare avanti. Dal 2008 in Italia sono scomparse 134 mila imprese, quasi 64 mila piccoli commercianti e 70 mila artigiani. Si dovrebbe supporre che, di fronte alle difficoltà crescenti, un’azione politica e di governo responsabile e lungimirante si adoperi per sostenere le famiglie e le fasce sociali più colpite. Di nuovo, i dati italiani mostrano il contrario. Dal 2004 al 2012 il Fondo nazionale per le politiche sociali ha visto una decurtazione di 1 miliardo e 841 milioni di euro, la maggior parte, peraltro, proprio nel periodo più recente, quando più forte si è fatto il bisogno: se nel 2008 il Fondo ammontava ancora a 929 milioni di euro, negli anni successivi è stato progressivamente prosciugato sino ad arrivare a 70 milioni nel 2012, per risalire poi a 317 milioni nel 2014, ma solo grazie alla tenace trattativa di sindaci e presidenti delle Regioni e alla determinata pressione di sindacati e associazioni.

Anche il fondo per la non autosufficienza viene rifinanziato per il 2014 con 275 milioni di euro, dopo che era passato dai 300 milioni del 2008 all’essere azzerato nel 2011 e 2012. Ma anche questo sostegno ai più deboli, che dovrebbe essere scontato e dovuto, è giunto solo grazie alle lotte disperate delle persone disabili e delle loro famiglie. Tanto che, nell’autunno 2013, i malati di SLA hanno lungamente protestato sotto il ministero dell’Economia, arrivando a rischiosi scioperi della fame e dell’ossigeno, culminati con la morte di un malato, Raffaele Pennacchio.

Per il 2014, insomma, qualche risorsa è stata strappata – letteralmente – dai dissestati bilanci pubblici; bilanci restii e avari nel soccorrere i deboli e i malati, ma più celeri e prodighi nel sostenere le banche e gli istituti finanziari. Rimane, però, un quadro generale assai eloquente: tra il 2008 e il 2012 il complesso di finanziamenti ai fondi sociali (per le politiche sociali, per le politiche della famiglia, per le pari opportunità, per l’infanzia e l’adolescenza, per la non autosufficienza, per il sostegno all’affitto, per l’inclusione degli immigrati, per i servizi infanzia, per il servizio civile) è passato tra 2.526 milioni di euro a soli 229.

Mentre quelle cifre diminuivano precipitosamente, altre, in parallelo, crescevano a vista d’occhio. Dal 2007 al 2012 il numero degli individui in povertà assoluta è raddoppiato, passando da 2,4 a 4,8 milioni, vale a dire l’8% della popolazione residente. Solo dal 2011 è aumentato del 33%, l’incremento percentuale più rilevante degli ultimi dieci anni. Quasi la metà (2,3 milioni) risiedono al Sud e di questi poco più di un milione sono minori, erano 723 mila nel 2011, con un’incidenza salita in un anno dal 7 al 10,3%. Ancor più ramificata e diffusa la povertà relativa, che, nel 2012, colpisce il 12,7% delle famiglie italiane, vale a dire 3.232.000 nuclei familiari e 9.560.000 persone.

«Non ci sono soldi» è diventato il leitmotiv quando si parla di servizi e spesa sociale. È vero solo in parte. L’altra parte si chiama individuazione delle priorità: politiche e, prima ancora, etiche. Il problema è che si continua a non pensare al welfare come investimento e come spesa per lo sviluppo. Ma la povertà non è una colpa (come le culture dell’egoismo cresciute in questi decenni hanno fatto credere) e non è neppure una sfortuna. È una condizione imposta, della quale occorre identificare e analizzare le cause, per poterla contrastare adeguatamente. È una malattia, che occorre curare con le misure appropriate e con l’urgenza necessaria. Se non lo si fa – e non lo si sta facendo – si è di fronte a una vera e propria omissione di soccorso, cioè a un reato. Anche qui, basta guardare i dati. Quelli dell’Eurostat ci dimostrano la mancanza e l’inefficacia delle politiche italiane: la percentuale di impatto positivo che le politiche sociali e contro la povertà hanno nel ridurre il rischio è del 35,2% nella media dell’Europa a 27 Paesi, ma per l’Italia, tra le ultime in graduatoria insieme a Grecia e Bulgaria, è solo del 19,7%. L’Irlanda, che pure negli ultimi anni ha vissuto profonde difficoltà, vede un impatto positivo delle proprie politiche sul rischio povertà del 60%, i Paesi scandinavi attorno al 50%, Lituania, Cipro, Slovenia, Regno Unito tra il 50 e il 40%, mentre l’Europa mediterranea raramente si attesta oltre il 30%.

Sempre Eurostat ci dice che sono ormai 115,7 milioni gli europei poveri, il 23,4%, con un trend che era andato calando tra il 2006 e il 2009, ma ha ripreso a salire impetuosamente dal 2010, con ben due milioni di nuovi poveri all’anno. La povertà, però, è anche un furto: di speranza, di dignità e di diritti. Lo abbiamo detto ad alta voce promuovendo, nel 2013, come Gruppo Abele e Liberala campagna “Miseria ladra”. L’abbiamo voluta per denunciare, per informare e per proporre, perché il coraggio della denuncia senza la responsabilità dellaproposta sarebbe monco e, alla fine, sterile.

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Abbiamo condensato in dieci punti le necessità che ci paiono più urgenti, ma anche maggiormente praticabili, di buon senso e capaci di raccogliere consenso.

1) Ricostituire subito e aumentare il fondo sociale e il fondo per la non autosufficienza;

2) moratoria sui crediti di Equitalia e del sistema bancario;

3) subito i pagamenti delle Pubbliche Amministrazioni nei confronti di chi fornisce servizi, beni e prestazioni;

4) agricoltura sociale, risanamento del dissesto idrogeologico, riconversione ecologica dell’apparato produttivo e della filiera energetica, integrazione deimigranti. A bilancio complessivo invariato attraverso la revisione dei progetti di alcune grandi opere inutili e i tagli alle spese militari;

5) sospendere gli sfratti esecutivi;

6) destinare velocemente il patrimonio immobiliare sfitto nelle città e quello confiscato alle attività criminali ai più bisognosi e a uso sociale;

7) riconoscere la residenza presso i municipi a tutti coloro che sono senza dimora e temporaneamente in difficoltà, così da poter accedere ai servizi sociali e sanitari;

8) reddito minimo di cittadinanza per sostenere il lavoro;

9) riportare in ambito pubblico i servizi basici essenziali e difesa dei beni comuni;

10) rinegoziazione del debito pubblico.

Naturalmente, tante altre possono essere le richieste e gli obiettivi, perché purtroppo infinite sono le facce del disagio, della fatica e dell’esclusione sociale. Pensiamo solo al dimenticato dramma delle tossicodipendenze, che continua a mietere vittime (390 nel 2012) nella distrazione e disinformazione generale e nelle resistenze politiche a mutare la gestione e gli indirizzi del Dipartimento Antidroga e nel dare seguito legislativo coerente alla sentenza della Corte costituzionale che ha bocciato le norme della Fini-Giovanardi.

Quel che conta, subito, è ricostruire le basi culturali e politiche per cambiare radicalmente rotta e fare in modo che dalla crisi si esca con nuove consapevolezze, costruendo un nuovo patto sociale e non buttando a mare i più deboli affinché la barca navighi più spedita nei mari della globalizzazione.

Senza la bussola della giustizia sociale e senza il sestante dell’uguaglianza, quella barca sarebbe comunque destinata al naufragio. Dal mondo globale non si può, in ogni caso, fuggire. Il pianeta è uno solo, è quello che abbiamo trovato nascendo e quello che dovremo lasciare in eredità alle nuove generazioni. E bisognerebbe ricordarlo, quando non si riesce e soprattutto non si vuole porre freno al degrado ambientale e mano alle pressanti questioni, a partire da quella climatica e del riscaldamento globale. Seguendo la metafora, l’impressione è ormai che, se prima si era sbagliata la rotta e si erano perdute le mappe, adesso la nave è, semplicemente, priva di conduzione. Del resto, un sistema intossicato dalla logica del profitto a ogni costo e sopra ogni cosa, a cominciare dalla vita umana, non solo non si pone il problema di preservare e di ricostruire, ma continua imperterrito a distruggere. È quello che succede con più evidenza negli ultimi anni, a livello globale e nei singoli territori che hanno subito i “bombardamenti” delle politiche di austerità e di un rigore finalizzato non all’equilibrio dei conti, come recita un ipocrita ritornello, bensì alla conservazione e al predominio di un modello economico-finanziario che ha manifestamente fallito, aumentando le disuguaglianze e la povertà.

Perciò la guerra in corso deve finire, prima che sia troppo tardi. Una guerra combattuta a colpi di speculazioni e di provvedimenti iniqui, ma che non disdegna metodi più tradizionali e altrettanto distruttivi. Come tutte le guerre, una guerra anche di parole, di mistificazione della realtà, di addomesticamento dei cittadini ridotti a spettatori, a “opinione pubblica”, laddove l’opinione è falsata da un sistema d’informazione spettacolarizzato e spesso condizionato da grandi interessi politici ed economici.

Le parole così perdono il loro valore, il loro peso specifico. Diventano maschere, travestimenti di azioni che vanno in direzione opposta a ciò che dichiarano. In questi ultimi anni il sonno delle coscienze ha reso possibile che si parlasse di “guerre umanitarie”; che il sistema del welfare fosse indicato come il responsabile degli sprechi e delle difficoltà di bilancio; che le privatizzazioni diventassero automaticamente sinonimo di efficienza; che un’umanità disperata in cerca di dignità e di futuro fosse etichettata come clandestina e trattata come criminale; che sul mondo del lavoro, sui ceti medi e sulle famiglie si
scaricassero tutti i costi della crisi; che il sistema dell’istruzione pubblica venisse letteralmente demolito, mentre quello della sanità veniva neppure tanto lentamente strangolato per favorire quello privato o convenzionato; che ai giovani fosse scientificamente impedito di aspirare a condizioni di lavoro minimamente eque e stabili per essere invece consegnati a un destino di intermittenza lavorativa e di privazione economica. E così via. Potremmo – e dobbiamo, come si fa in queste pagine, con rigore di documentazione e capacità di approfondimento – continuare a lungo. Quel che è certo è che vi è stato un lento processo di “mitridatizzazione”, di assuefazione al veleno, che ha reso via via più flebili la voce e le intelligenze critiche.
Da qui è necessario, vitale, ripartire. Dal riprendere voce e consapevolezza.

Dall’informazione e dalla cultura, dalla capacità di creare e condividere luoghi di riflessione e di impegno, dal dovere di ascoltare i giovani e di renderli davvero protagonisti. Dal ricominciare a dire e soprattutto essere “noi”. Noi possiamo, noi dobbiamo essere il cambiamento. Perché mai come ora un cambiamento radicale è necessario e deve diventare possibile.

 * presidente del Gruppo Abele e di Libera

Questo articolo (titolo originale Le priorità etiche della politica) fa parte delRapporto sui diritti globali 2014 (Ediesse), ideato e realizzato dalla Associazione Società Informazione Onlus e promosso dalla Cgil con la partecipazione di Arci, Antigone, Cnca e altri. L’introduzione del Rapporto, scritta da Sergio Segio, è leggibile qui (La catastrofe globale dietro la crisi), l’adesione di Segio alla campagna Ribellarsi facendo promossa da Comune-info invece è questa: Fare, dunque pensare.



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