by redazione | 7 Luglio 2014 9:31
GERUSALEMME . Sono sotto la custodia dello Shin Bet, il servizio segreto interno, i sei giovani israeliani arrestati per il rapimento e l’assassinio di Mohammed Abu Khdeir, il ragazzino palestinese rapito all’alba di mercoledì scorso e ritrovato poco dopo arso vivo in un parco della parte ovest della Città Santa. Dopo giorni — in cui i quartieri arabi sono teatro di una guerriglia di giorno e di notte — gli investigatori hanno finalmente imboccato la strada dell’estremismo nazionalista inquadrando l’assassinio del giovane nella possibile vendetta per l’uccisione dei tre seminaristi ebrei a Hebron. Polizia e sicurezza interna hanno effettuato all’alba di ieri una trentina di fermi, ma l’attenzione era dedicata a questi sei.
Un “gag order” (la censura) impedisce di pubblicare i loro nomi, ma qualcosa è trapelato. Sono tutti giovani, alcuni sono minorenni, vengono da Beit Shemesh, da Gerusalemme e da Adam, un piccolo insediamento alle porte della Città Santa. Stando alle tv israeliane uno di loro, descritto dalla polizia come un estremista, durante l’interrogatorio avrebbe ceduto e confessato il rapimento e il delitto, implicando gli altri cinque. I sei non farebbero parte di un gruppo estremista formale, come era
stato ipotizzato in precedenza, sarebbero piuttosto giovani radicali che hanno deciso di farsi vendetta da soli per rappresaglia per la tragica morte di Eyal, Naftali e Gilad, i tre ragazzi rapiti alle porte di Hebron lo scorso 12 giugno.
Sono ancora senza nome, ma due dei loro volti sono stati “catturati” dalle telecamere di sorveglianza che ci sono lungo la Shuafat Road: si vedono pochi attimi prima che costringano il ragazzino arabo a salire in macchina. Le telecamere erano state subito consegnate alla polizia dal padre della vittima che adesso reagisce: «Ho dato il filmato cinque giorni fa, solo adesso hanno capito che erano estremisti ebrei?». La polizia adesso dà anche seguito a un’altra denuncia. Nello stesso quartiere palestinese il giorno precedente il rapimento di Mohammed, non appena era stata diffusa la notizia del ritrovamento dei corpi dei tre seminaristi ebrei, qualcuno aveva cercato di rapire per strada un ragazzino di nove anni, Mousa Zalun, e solo le grida della madre e l’intervento di alcuni passanti avevano fatto fallire l’azione. Anche di quel tentativo ci sono filmati delle telecamere
di sorveglianza ed è grazie a essi che si sarebbe arrivati al “commando” che ha rapito Mohammed, perché l’auto usata era la stessa.
La fidanzata di uno dei sospetti ha detto ieri sera al sito web di notizie Walla che il suo ragazzo è uno studente universitario e lavora nell’impresa di suo padre. «Si tratta di una famiglia di ultraortodossi, ma lui è un ortodosso moderno». Non l’ha mai sentito parlare di vendetta: «Io non credo che abbia fatto qualcosa di simile. Non avrebbe rischiato la sua vita per qualcosa
così, lo conosco». Il vicino di un altro degli arrestati ha raccontato in tv che i parenti sono sconvolti e egli stesso non riusciva a credere che il ragazzo fosse coinvolto nell’omicidio.
Ieri sera il premier Benjamin Netanyahu, nel tentativo di far calare la tensione, ha detto che «Israele non fa differenza tra il terrorismo palestinese e il terrorismo ebraico», facendo capire che i colpevoli saranno trattati con la stessa severità. Questo nella speranza che la situazione interna migliori, che la protesta nei quartieri arabi della Città
Santa — e anche in altre città come Nazaret e Haifa — vada man mano scemando. Le stesse prerogative sono difficilmente applicabili nel Sud di Israele, dove da Gaza continuano a piovere missili (180 negli ultimi sette giorni) e i caccia israeliani — ma ieri sera anche l’artiglieria — tornano a colpire le basi mobili dei lanciatori. Hamas si dice d’accordo (con Israele) per una tregua, ma sono i gruppi minori — la Jihad Islamica e i Comitati popolari — a essere contrari a un intesa.
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