Fondi Ue, il governo pronto a dimezzare il cofinanziamento per risparmiare 10-12 miliardi

Fondi Ue, il governo pronto a dimezzare il cofinanziamento per risparmiare 10-12 miliardi

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ROMA . Dimezzare la quota di cofinanziamento italiano ai fondi europei. O almeno ridurla in modo significativo. Materializzando così dal bilancio dello Stato un tesoretto dai 10 ai 12 miliardi, a seconda delle opzioni. L’ipotesi, studiata da Palazzo Chigi, prende corpo di ora in ora. Il sottosegretario Delrio, parlandone nei giorni scorsi con i governatori, avrebbe raccolto consensi, ma pure qualche malumore (in primis dalla Puglia). È chiaro che un’operazione del genere asciugherebbe, almeno in parte, le risorse destinate proprio alle Regioni, specie quelle meridionali. Ma è altrettanto evidente che aprirebbe la strada a una maggiore flessibilità nei conti pubblici, a partire dal prossimo anno. E dunque una
minore tensione sul fatidico 3%, il rapporto limite tra deficit e Pil. Flessibilità ottenuta dentro e non fuori le regole comunitarie. Proprio come raccomanda il nuovo corso di Bruxelles.
L’uovo di Colombo? Così pare. Si sa che i fondi europei per essere spesi devono essere accompagnati da risorse nazionali, secondo il criterio generale “fifty-fifty”: metà li stanzia Bruxelles, metà Roma. Ma questo criterio non è rigido. Anzi ammette una deroga interessante (scritta nei regolamenti Ue). La possibilità cioè di portare il contributo nazionale dal 50 fino al 25%. Dunque anziché doppiare (100 li mette l’Europa e altri 100 li mette l’Italia), il cofinanziamento può essere ridotto della metà (100 li mette l’Europa e 50 l’Italia). O portato a tre quarti (100 li mette l’Europa e 75 l’Italia). Oppure in un altro punto intermedio (tra 50 e 100). In tutti i casi — la percentuale di riduzione è ancora ballerina — ci sarebbe un risparmio evidente di soldi pubblici. E questo perché nella legge di Stabilità per il 2014 il cofinanziamento è già “pesato” per l’intero, ovvero per 24 miliardi, da spalmare nei prossimi sette anni. Questi 24 miliardi difatti accompagnano i 41 miliardi di fondi nuovi (relativi al settennato 2014-2020) che l’Europa ci mette a disposizione. E rappresentano quanto dovuto dallo Stato centrale. Il resto dovrà arrivare per lo più dalle Regioni. Per un totale di “fifty-fifty”, appunto. E dunque circa 80 miliardi totali (40 europei e 40 italiani, per semplificare).
Ebbene quei 24 miliardi pesano sul groppone del deficit italiano. Se la massa fosse alleggerita, i conti respirerebbero. E a partire dal prossimo anno fino al 2020 si cumulerebbe un bel “tesoretto”. Libero da vincoli europei, né di destinazione né temporali. Un bel vantaggio, a costo zero. Entro il 22 luglio difatti il governo Renzi deve inviare a Bruxelles i “piani operativi” relativi ai fondi 2014-20. Dire cioè come intende spendere i denari nei vari ambiti (istruzione, occupazione, infrastrutture, inclusione e povertà, cultura, ecc.). E soprattutto di quanto cofinanziarli. Una volta scritto, nero su bianco, il gioco è fatto. Un’opzione questa che l’Italia non ha sfruttato nel periodo 2007-2013 (c’era tempo fino al 2010). E che poi il ministro Barca tentò di riagguantare nel 2012, inventando il cosiddetto “Piano di azione e coesione”, una sorta di salvadanaio parallelo da usare con scioltezza. E soprattutto riprogrammare all’infinito quando le risorse non vengono spese.
È chiaro che ora il governo Renzi, verificati gli avanzi di vecchi fondi Ue ancora non impegnati (Delrio due giorni fa a Pompei lamentava il pericolo di perderne il 20-25%), vuole rendere più lieve la “fiche” italiana. Al 31 maggio scorso — calcola la Uil, Servizio politiche territoriali sui dati dell’ultimo monitoraggio ufficiale — l’Italia aveva rendicontato alla Commissione europea il 56% delle risorse 2007-2013: 26,7 miliardi sul totale di 47,7. Detto in altri termini, entro dicembre 2015 dovremo spendere 21 miliardi, pena restituzione dei fondi. Di questi 5 miliardi sono dati quasi per persi.



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