Droga, lo scudo Usa per i trattati Onu
Le riforme del controllo sulla droga in atto nelle Americhe mettono in tensione la cornice legale globale disegnata dalle tre convenzioni delle Nazioni Unite: stabilire quanto i confini delle convenzioni possano essere allargati sta diventando una questione delicata. La decriminalizzazione della detenzione di droga a uso personale, decisa da molti paesi latino americani, e l’apertura di una «stanza del consumo» a Vancouver, in Canada, hanno già innescato dispute legali con lo International Narcotics Control Board (Incb), l’organo che presiede all’attuazione delle Convenzioni.
Di recente, l’azione della Bolivia per legittimare la foglia di coca e la legalizzazione della cannabis negli stati di Washington e del Colorado e in Uruguay, hanno cambiato per sempre il panorama della politica della droga. Oggi il problema non è più se si debba aggiornare il sistema delle convenzioni Onu o meno, ma piuttosto il come e quando farlo.
È uno scenario da incubo, per Washington e per la burocrazia Onu. Nel secolo scorso, gli Stati Uniti si sono impegnati più di ogni altra nazione per influenzare il disegno del controllo globale sulla droga e per obbligare il mondo a rispettarlo. Aprire il dibattito ora, rischia di minare lo strumento legale che gli Stati Uniti hanno usato così spesso per costringere gli altri paesi a operare in accordo con i propri principi.
Il dipartimento di Stato Usa ha iniziato una nuova campagna internazionale, simile a quella a suo tempo intrapresa contro la Bolivia per la foglia di coca raccogliendo i paesi «amici delle Convenzioni». La nuova campagna vuole «difendere l’integrità delle tre Convenzioni» seppur permettendo una loro interpretazione più flessibile e «una qualche differenziazione a livello nazionale». Washington propone di concedere più flessibilità nell’allocazione delle scarse risorse destinate all’attuazione dei trattati. Questa interpretazione, fino ad oggi sempre respinta dall’Incb, è la base della tesi degli Stati Uniti secondo cui la decisione federale di non intervenire nella regolamentazione della cannabis a livello statale sarebbe in accordo con le convenzioni dell’Onu.
Se la comunità internazionale accettasse questo discorso, in cambio Washington concederebbe anche all’Uruguay e ad altri paesi di regolamentare legalmente la cannabis senza conseguenze. Tuttavia, la nuova «linea mite» degli Stati Uniti non si estende fino ad altre questioni come la politica boliviana per la coca o le misure di riduzione del danno come le «stanze del consumo».
Riformare le convenzioni non è un percorso facile. Ma evitare il dibattito serve solo a perpetuare una cornice legale incoerente e datata: il che porta a più ipocrisia, che cela l’infrazione dei trattati, la quale a sua volta mina il rispetto delle convenzioni internazionali. Grazie ad alcune clausole di riserva, la flessibilità degli attuali trattati è stata utile per promuovere maggiore rispetto dei diritti umani e per sostenere la legalità della riduzione del danno e di certe misure di depenalizzazione. Ma non è sufficiente.
La cornice normativa dell’Onu dovrebbe rappresentare un terreno morale alto e offrire ai paesi una guida per fare ciò che è giusto, invece di dare spazio a interpretazioni (opinabili sul piano legale) per evitare di fare cose sbagliate. Le clausole di riserva delle convenzioni non cambiano la natura dei trattati in qualcosa la cui «integrità» valga la pena di difendere. L’attuale impianto dei trattati è ispirato alla tolleranza zero: l’assemblea generale Onu del 2016 rappresenta un’opportunità unica per aprire un dibattito vero e cambiare le convenzioni.
* TransNational Institute, Amsterdam. Versione originale
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