Cercando Sophia tra eros e logos
COME potrebbe filosofia separarsi da filologia senza diventare una ricerca del tutto astratta e formale? Non è mossa forse dall’istanza di comprendere, e magari ordinare, il linguaggio in cui tutti viviamo e che continuamente trasformiamo con lo stesso parlarlo? E non insegna la vera filologia quale abisso spalanca ogni parola, come il “pozzo del passato” tutto esprima fuorché un morto e inalterabile “così fu”? Filosofia e filologia si riflettono vicendevolmente e si comprendono l’una sullo specchio dell’altra.
Può perciò non essere inutile commentare filologicamente quella straordinaria ”invenzione” dello spirito greco, senza la quale nulla è comprensibile della civiltà dell’Occidente, che ancora, per quanto dubbiosamente, chiamiamo filosofia. Quale sfondo si rivela in questo nome? Quali le sue radici? Cosa significa la sophia che il filosofo “ama”, ovvero, filologicamente parlando, sente come il suo problema, la sua cosa , ciò che lo chiama radicalmente in causa? Sophia, sapere o sapienza, poteva riferirsi a ogni arte, a ogni capacità di fare — da quella del carpentiere ( Iliade , XV, 412), a quella di colui che stabiliva le leggi della città, fino a quella che iniziava alla contemplazione delle cose divine.
È dal grembo fecondo del multiverso delle sophiai artes che si genera la filosofia. Come se dal loro stesso intimo emergesse l’istanza di conoscersi, di comprendere la propria ragione d’essere, il proprio principio e il proprio fine. In questo senso Pericle, nel grande discorso che leggiamo in Tucidide, chiama tutti i cittadini di Atene amanti del bello e amanti della sophia . Nulla di debole o ozioso — logo concreto per eccellenza! In Atene si persegue e onora il saper fare, e per saper fare è necessario pensare, saper dare ragione di ciò che si opera, compito impossibile senza discussione, competizione, agòn.
E un’opera ben fatta, che sia davvero “in forma”, e per ciò anche utile, quella soltanto è lecito chiamare bella, kalòn .
In un testo capitale per la nostra civiltà, che ci si ostina a volte ancora a leggere in una chiave “spiritualistica”, Il simposio platonico, risuona lo stesso timbro di una filosofia rivolta alle prassi. L’amore, eros, platonico non si svolge affatto da contemplazione a contemplazione, ma attraverso momenti fattivi, in un prepotente crescendo di quella capacità di produrre che è (come i tragici sanno, da Eschilo a Euripide) ”tremenda” caratteristica del nostro essere. A generare, e a generare nel bello cose belle, quasi costringe il grande dèmone Eros. La filosofia intende far luce, o vedere nella luce, ciò che accomuna le diverse forme in cui quella capacità si incarna. Proprio nel coglierne e “amarne” ciò che le distingue, essa ne ricerca l’unità. La distinzione neppure potrebbe essere logicamente affermata, infatti, se non si comprendesse l’unità dei distinti.
Ancora la filologia insegna a ricordare, e cioè a riportare al cuore del presente, a ripensare oggi, il senso di quei frammenti di Eraclito, apparentemente contraddittori, dove il filosofo ci viene incontro e il suo nome si fa problema, staccandosi dalla visione del mondo mitica e religiosa. Il primo frammento afferma che è necessario che gli uomini filosofi siano historas di molte cose. Historia sta a significare quel vedere che è proprio del testimone oculare — ma un vedere che diventa esperienza, che riflette su ciò che vede e sa comunicarlo. Il secondo dice che il sapere molte cose (polymathia) non insegna ad avere intelletto, se no lo avrebbe insegnato anche a quei “saggi” che Eraclito vede ancora immersi nella cultura del mito. Ma l’ historia non comporta un vedere- sapere molte cose? No; historia è vedere da sé, assumersi la responsabilità del vedere e sapere; polymathia è, invece, prendere l’opinione a maestra, imparare dai più, o da costumi, tradizioni, credenze.
Il filosofo deve essere histor perché fa, sì, esperienza di molte cose e molti fatti, ma non viaggia dagli uni agli altri semplicemente, tantomeno li assume dai racconti altrui. Il suo intelletto è, sì, sempre per via, ma ciò che egli interroga a ogni momento del suo cammino è la ragione che tutte le cose pilota — sequesta ragione si trovi, segli occhi dell’intelletto possano illuminarla e in quali limiti.
Logo concreto la filosofia: essa mira a dire soltanto la verità (a differenza delle Muse di Esiodo), nel senso che il suo dire deve saper corrispondere all’essenza di ciò di cui fa esperienza — e facciamo esperienza delle forme del nostro pensare e agire immanenti
alla totalità del reale. L’armonia che tutte collega non appare, ma certamente non può non vederla l’intelletto, poiché uno rimane il mondo dei desti. Dall’amore, che è fattiva ricerca, per ognuna di esse, dalla filologica cura per il linguaggio di ognuna, a quell’armonia, più potente di tutte le udibili, vuole liberare la filosofia.
Questo è il testo della lezione tenuta da Massimo Cacciari
per il conferimento della laurea honoris causa in filologia classica all’Università di Bologna
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