La via crucis dei profughi nel cuore dell’Europa

by redazione | 21 Giugno 2014 10:51

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«L’Italia? Sì, ci sono pas­sato ma non ricordo nulla. Ero nasco­sto in un camion, al buio. Ho rivi­sto la luce solo quando sono arri­vato qui». Bashar ha 26 anni e il viso affi­lato. In bocca non gli riman­gono molti denti, segno dei pati­menti e della mal­nu­tri­zione. Per il resto, ha ancora il volto di un ragazzo. Una ban­dana gli avvolge il capo.

Mi si avvi­cina nella chiesa di San Giu­seppe Bat­ti­sta al beghi­nag­gio, così detta per­ché costruita nell’antico quar­tiere bru­xel­lese delle beghine, e mi con­duce verso una parete sulla quale è affissa una car­tina del suo paese, l’Afghanistan. Vuole mostrarmi da dove viene: un vil­lag­gio tra le mon­ta­gne al con­fine con il Paki­stan. Dice di essere scap­pato per­ché non gli andava di essere arruo­lato tra le fila dei tale­bani, che «ti costrin­gono a riem­pirti di esplo­sivo e a farti sal­tare per aria», che molti suoi amici sono stati ammaz­zati e che la mag­gior parte dei com­bat­tenti non sono afghani. Per far­melo capire meglio, mi toglie di mano il tac­cuino e scrive, in un inglese sten­tato, «40000 sol­dier come with tali­ban from Pakistan».

E gli ame­ri­cani? «Nel mio vil­lag­gio non li ho mai visti. Pas­sa­vano solo con gli aerei e ogni tanto bom­bar­da­vano». Poi elenca le tappe della sua fuga per la libertà: Iran, Kur­di­stan, Tur­chia, Gre­cia, Ita­lia, Fran­cia, fin qui a Bru­xel­les, dove si trova da tre anni. Da novem­bre vive nella «chiesa degli afgani», dopo essere stato sgom­be­rato da una palaz­zina che occu­pava con altri immi­grati. Con lui una qua­ran­tina di pro­fu­ghi, tutti afghani, maschi, «ma siamo arri­vati a essere anche più di 400, qui den­tro era tutto pieno», spiega un altro pro­fugo, con la barba ben curata e in mani­che di cami­cia, che è qui dal 2003 e ha impa­rato ad avere più dime­sti­chezza con le lingue.

Que­sta chiesa nel cuore della capi­tale euro­pea, a pochi passi dalle isti­tu­zioni comu­ni­ta­rie, è il punto di arrivo di uno dei mille rivoli della dia­spora afghana, una sorta di zona franca dove atten­dere l’agognato asilo poli­tico senza timore di essere sgom­be­rati o rim­pa­triati. Tutte le per­sone rifu­giate qui pos­sono elen­care con pre­ci­sione le tappe della via cru­cis che si è con­clusa tra le navate di que­sta chiesa: Brin­disi, Roma, Ven­ti­mi­glia, solo per stare all’Italia.

Un gio­vane che aveva 18 anni quando è arri­vato, tre anni fa, sostiene di essersi fer­mato per cin­que giorni nella capi­tale ita­liana. Non rie­sce a dire dove, ma ricorda l’accoglienza rice­vuta, la soli­da­rietà che si era for­mata intorno a loro, le per­sone che por­ta­vano pasti e coperte. Qui invece, spiega, rimane tutto il giorno nella chiesa per­ché teme che, andan­do­sene in giro, possa essere fer­mato e rispe­dito nella città da cui è par­tito: Kun­duz. Eppure, iro­nizza, «se non avessi avuto pro­blemi nel mio Paese, mica sarei venuto fin qui?».

I rifu­giati della chiesa del beghi­nag­gio sono costretti a cion­do­lare per intere gior­nate alla penom­bra della chiesa o nella piazza anti­stante. Non pos­sono cer­care uffi­cial­mente lavoro e, se non fosse per l’assistenza mate­riale for­nita dalle asso­cia­zioni di volon­ta­riato, non sapreb­bero come soprav­vi­vere. Bashar sarebbe voluto andare a Lon­dra. In tal caso, alla via cru­cis da Oriente verso Occi­dente si sarebbe aggiunta un’ulteriore sta­zione, forse per­sino peg­giore delle altre: il porto di Calais, in Fran­cia, dove cen­ti­naia di immi­grati atten­dono anche per mesi di riu­scire a infi­larsi di sop­piatto su un tra­ghetto per l’Inghilterra o di attra­ver­sare con qual­che sot­ter­fu­gio il tun­nel sotto la Manica.

Ma, a sen­tire gli afghani del beghi­nag­gio, in que­sto momento l’Inghilterra non pare più una meta, forse per­ché si ritiene che in que­sto momento non sia par­ti­co­lar­mente recet­tiva nei con­fronti degli immi­grati. Sem­mai si guarda al nord Europa, anche se, dicono i rifu­giati del «begui­nage», pure lì le cose stanno cam­biando in peg­gio. E c’è qual­che rim­pianto per l’Italia, rite­nuta tutto som­mato una terra più acco­gliente delle altre.

A Calais, oggi, si tro­vano soprat­tutto migranti pro­ve­nienti dal Corno d’Africa: suda­nesi, etiopi, eri­trei, come ha ben docu­men­tato un recen­tis­simo repor­tage di Elise Gruau e Diphy Mariani per France Cul­ture. Sono gli stessi che, riu­scita l’impresa di soprav­vi­vere al deserto e al Medi­ter­ra­neo, si pre­pa­rano ad affron­tare l’ultimo tratto di mare. Ma in ogni modo gli afghani non man­cano, così come gli ira­cheni, ultimi arri­vati a ricor­darci le ferite aperte del mondo in cui viviamo.

I richie­denti asilo di Bru­xel­les si sono rifu­giati nella chiesa del «begui­nage» nel novem­bre scorso, dopo lo sgom­bero dell’edificio che occu­pa­vano in rue de la Poste. All’inizio erano in 450, la situa­zione era allo stremo per­ché la chiesa non riu­sciva a garan­tire un’assistenza decente a tutti e all’interno il freddo pun­geva. E’ andata avanti così fino ad aprile, quando la gran parte degli occu­panti è andata via anche per­ché dalla fine di gen­naio non ci sono più state espul­sioni e la situa­zione si è un po’ tran­quil­liz­zata. Rimane il pro­blema del rico­no­sci­mento giu­ri­dico: man mano che qual­cuno ottiene lo sta­tus di rifu­giato, lascia la chiesa e può met­ter piede nella For­tezza Europa.

Gli altri riman­gono den­tro, accam­pati in tende che arri­vano a ospi­tare ognuna una decina di per­sone. Bashar è uno di que­sti: si è visto respin­gere quat­tro volte la domanda d’asilo.

Da que­ste parti non si è mai visto nes­sun euro­par­la­men­tare, e nep­pure fun­zio­nari della Com­mis­sione o qual­cun altro delle migliaia di buro­crati che si occu­pano di far fun­zio­nare la mac­china comu­ni­ta­ria. Solo la poli­zia si è occu­pata di loro: lo scorso 22 otto­bre ha sgom­be­rato uno sta­bile che 150 richie­denti asilo ave­vano occu­pato a Ixel­les, a poche cen­ti­naia di metri dal Par­la­mento Euro­peo, e una suc­ces­siva mani­fe­sta­zione si era con­clusa con 158 arre­sti e un ferito.

La chiesa del beghi­nag­gio, da que­sto punto di vista, è un approdo sicuro: qui almeno non si rischia di essere sbat­tuti fuori. Ma l’atmosfera è tesa e il fatto che pas­sino i mesi senza che nulla accada non fa che ren­dere più acuto lo scet­ti­ci­smo verso chiunque.

All’ingresso della chiesa, un car­tello improv­vi­sato recita: «E’ que­sta la demo­cra­zia?». Cin­quan­ta­cin­que orga­niz­za­zioni hanno chie­sto al governo belga una mora­to­ria delle espul­sioni. Ma dopo le ultime ele­zioni la fac­cenda rischia di com­pli­carsi ancora di più. Il pre­mier uscente, il socia­li­sta Elio di Rupo, pas­serà la mano con ogni pro­ba­bi­lità all’ex sin­daco di Anversa Bart de Wever, lea­der della Nuova Alleanza Fiam­minga, par­tito sepa­ra­ti­sta, anti-immigrati e neo­li­be­ri­sta, che molto dif­fi­cil­mente allar­gherà le maglie dell’accoglienza. Vice­versa, il rischio è che si pre­pari un ulte­riore giro di vite.

E’ però signi­fi­ca­tivo delle ancora troppo forti chiu­sure nazio­nali che, nella capi­tale euro­pea, a pochi venga in mente di tirare in ballo le isti­tu­zioni comu­ni­ta­rie. E’ quello che pro­verà a fare la caro­vana par­tita da Stra­sburgo e arri­vata ieri a Bru­xel­les: 300 migranti pro­ve­nienti da Fran­cia, Ger­ma­nia e Ita­lia che hanno sfi­dato i con­trolli alle fron­tiere per venire a chie­dere che la poli­tica migra­to­ria euro­pea sia rivi­sta radi­cal­mente. La set­ti­mana di «azioni” cul­mi­nerà, gio­vedì pros­simo, in una mani­fe­sta­zione che par­tirà pro­prio dalla piazza del beghi­nag­gio. Saranno loro a libe­rare, meta­fo­ri­ca­mente, gli afghani che vi alloggiano.

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