La via crucis dei profughi nel cuore dell’Europa
«L’Italia? Sì, ci sono passato ma non ricordo nulla. Ero nascosto in un camion, al buio. Ho rivisto la luce solo quando sono arrivato qui». Bashar ha 26 anni e il viso affilato. In bocca non gli rimangono molti denti, segno dei patimenti e della malnutrizione. Per il resto, ha ancora il volto di un ragazzo. Una bandana gli avvolge il capo.
Mi si avvicina nella chiesa di San Giuseppe Battista al beghinaggio, così detta perché costruita nell’antico quartiere bruxellese delle beghine, e mi conduce verso una parete sulla quale è affissa una cartina del suo paese, l’Afghanistan. Vuole mostrarmi da dove viene: un villaggio tra le montagne al confine con il Pakistan. Dice di essere scappato perché non gli andava di essere arruolato tra le fila dei talebani, che «ti costringono a riempirti di esplosivo e a farti saltare per aria», che molti suoi amici sono stati ammazzati e che la maggior parte dei combattenti non sono afghani. Per farmelo capire meglio, mi toglie di mano il taccuino e scrive, in un inglese stentato, «40000 soldier come with taliban from Pakistan».
E gli americani? «Nel mio villaggio non li ho mai visti. Passavano solo con gli aerei e ogni tanto bombardavano». Poi elenca le tappe della sua fuga per la libertà: Iran, Kurdistan, Turchia, Grecia, Italia, Francia, fin qui a Bruxelles, dove si trova da tre anni. Da novembre vive nella «chiesa degli afgani», dopo essere stato sgomberato da una palazzina che occupava con altri immigrati. Con lui una quarantina di profughi, tutti afghani, maschi, «ma siamo arrivati a essere anche più di 400, qui dentro era tutto pieno», spiega un altro profugo, con la barba ben curata e in maniche di camicia, che è qui dal 2003 e ha imparato ad avere più dimestichezza con le lingue.
Questa chiesa nel cuore della capitale europea, a pochi passi dalle istituzioni comunitarie, è il punto di arrivo di uno dei mille rivoli della diaspora afghana, una sorta di zona franca dove attendere l’agognato asilo politico senza timore di essere sgomberati o rimpatriati. Tutte le persone rifugiate qui possono elencare con precisione le tappe della via crucis che si è conclusa tra le navate di questa chiesa: Brindisi, Roma, Ventimiglia, solo per stare all’Italia.
Un giovane che aveva 18 anni quando è arrivato, tre anni fa, sostiene di essersi fermato per cinque giorni nella capitale italiana. Non riesce a dire dove, ma ricorda l’accoglienza ricevuta, la solidarietà che si era formata intorno a loro, le persone che portavano pasti e coperte. Qui invece, spiega, rimane tutto il giorno nella chiesa perché teme che, andandosene in giro, possa essere fermato e rispedito nella città da cui è partito: Kunduz. Eppure, ironizza, «se non avessi avuto problemi nel mio Paese, mica sarei venuto fin qui?».
I rifugiati della chiesa del beghinaggio sono costretti a ciondolare per intere giornate alla penombra della chiesa o nella piazza antistante. Non possono cercare ufficialmente lavoro e, se non fosse per l’assistenza materiale fornita dalle associazioni di volontariato, non saprebbero come sopravvivere. Bashar sarebbe voluto andare a Londra. In tal caso, alla via crucis da Oriente verso Occidente si sarebbe aggiunta un’ulteriore stazione, forse persino peggiore delle altre: il porto di Calais, in Francia, dove centinaia di immigrati attendono anche per mesi di riuscire a infilarsi di soppiatto su un traghetto per l’Inghilterra o di attraversare con qualche sotterfugio il tunnel sotto la Manica.
Ma, a sentire gli afghani del beghinaggio, in questo momento l’Inghilterra non pare più una meta, forse perché si ritiene che in questo momento non sia particolarmente recettiva nei confronti degli immigrati. Semmai si guarda al nord Europa, anche se, dicono i rifugiati del «beguinage», pure lì le cose stanno cambiando in peggio. E c’è qualche rimpianto per l’Italia, ritenuta tutto sommato una terra più accogliente delle altre.
A Calais, oggi, si trovano soprattutto migranti provenienti dal Corno d’Africa: sudanesi, etiopi, eritrei, come ha ben documentato un recentissimo reportage di Elise Gruau e Diphy Mariani per France Culture. Sono gli stessi che, riuscita l’impresa di sopravvivere al deserto e al Mediterraneo, si preparano ad affrontare l’ultimo tratto di mare. Ma in ogni modo gli afghani non mancano, così come gli iracheni, ultimi arrivati a ricordarci le ferite aperte del mondo in cui viviamo.
I richiedenti asilo di Bruxelles si sono rifugiati nella chiesa del «beguinage» nel novembre scorso, dopo lo sgombero dell’edificio che occupavano in rue de la Poste. All’inizio erano in 450, la situazione era allo stremo perché la chiesa non riusciva a garantire un’assistenza decente a tutti e all’interno il freddo pungeva. E’ andata avanti così fino ad aprile, quando la gran parte degli occupanti è andata via anche perché dalla fine di gennaio non ci sono più state espulsioni e la situazione si è un po’ tranquillizzata. Rimane il problema del riconoscimento giuridico: man mano che qualcuno ottiene lo status di rifugiato, lascia la chiesa e può metter piede nella Fortezza Europa.
Gli altri rimangono dentro, accampati in tende che arrivano a ospitare ognuna una decina di persone. Bashar è uno di questi: si è visto respingere quattro volte la domanda d’asilo.
Da queste parti non si è mai visto nessun europarlamentare, e neppure funzionari della Commissione o qualcun altro delle migliaia di burocrati che si occupano di far funzionare la macchina comunitaria. Solo la polizia si è occupata di loro: lo scorso 22 ottobre ha sgomberato uno stabile che 150 richiedenti asilo avevano occupato a Ixelles, a poche centinaia di metri dal Parlamento Europeo, e una successiva manifestazione si era conclusa con 158 arresti e un ferito.
La chiesa del beghinaggio, da questo punto di vista, è un approdo sicuro: qui almeno non si rischia di essere sbattuti fuori. Ma l’atmosfera è tesa e il fatto che passino i mesi senza che nulla accada non fa che rendere più acuto lo scetticismo verso chiunque.
All’ingresso della chiesa, un cartello improvvisato recita: «E’ questa la democrazia?». Cinquantacinque organizzazioni hanno chiesto al governo belga una moratoria delle espulsioni. Ma dopo le ultime elezioni la faccenda rischia di complicarsi ancora di più. Il premier uscente, il socialista Elio di Rupo, passerà la mano con ogni probabilità all’ex sindaco di Anversa Bart de Wever, leader della Nuova Alleanza Fiamminga, partito separatista, anti-immigrati e neoliberista, che molto difficilmente allargherà le maglie dell’accoglienza. Viceversa, il rischio è che si prepari un ulteriore giro di vite.
E’ però significativo delle ancora troppo forti chiusure nazionali che, nella capitale europea, a pochi venga in mente di tirare in ballo le istituzioni comunitarie. E’ quello che proverà a fare la carovana partita da Strasburgo e arrivata ieri a Bruxelles: 300 migranti provenienti da Francia, Germania e Italia che hanno sfidato i controlli alle frontiere per venire a chiedere che la politica migratoria europea sia rivista radicalmente. La settimana di «azioni” culminerà, giovedì prossimo, in una manifestazione che partirà proprio dalla piazza del beghinaggio. Saranno loro a liberare, metaforicamente, gli afghani che vi alloggiano.
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