Venti di guerra in Vietnam

Venti di guerra in Vietnam

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I moto­rini della Piag­gio ron­zano a migliaia lungo le strade di Ho Chi Minh City, come non si vedeva ancora solo un anno fa, sti­pati di pas­seg­geri, spesso intere fami­glie, come nell’Italia del boom eco­no­mico. Nelle città, il moto­rino è il mezzo di tra­sporto di ele­zione in Vietnam e le miti­che Vespe dell’azienda pon­te­de­rese, pro­dotte a Vinh Phuc dal 2009, se la gio­cano bene la par­tita della con­cor­renza giap­po­nese: prima visi­bili solo nella capi­tale Hanoi, oggi si stanno affer­mando anche nel ricco sud del paese. Assieme ai tra­di­zio­nali nomi del made in Italy espo­sti nei negozi d’élite e nei ruti­lanti cen­tri com­mer­ciali fre­quen­tati dalla bor­ghe­sia viet­na­mita e dai turi­sti, gli scoo­ters Piag­gio sono i soli agganci all’Italia che Mat­teo Renzi può aver cer­cato in que­sta area del mondo, da decenni espulsa dal rag­gio di inte­resse della poli­tica estera ita­liana.
Nella rapida visita di que­sti giorni, ogget­ti­va­mente contro-corrente (ma no, non è La Pira), il primo mini­stro Renzi ha incon­trato un paese che attra­versa un momento geo-politicamente molto com­plesso, e che si sta pre­pa­rando al peg­gio. A nuovi venti di guerra. La situa­zione è pre­ci­pi­tata per Hanoi all’inizio di mag­gio, quando la Cina è pene­trata uni­la­te­ral­mente nelle acque ter­ri­to­riali viet­na­mite per instal­larvi un mas­sic­cio impianto di per­fo­ra­zione petro­li­fera, Haiyang Shiyou-981, a poche miglia nau­ti­che dall’arcipelago Hoang Sa, al largo di Danang. La piat­ta­forma è stata poi spo­stata di 25 miglia a nor­dest dalla prima per­fo­ra­zione, ma sem­pre in acque viet­na­mite. La vio­la­zione della sovra­nità marit­tima del Vietnam nelle ultime set­ti­mane ha pro­dotto un sot­ter­ra­neo clima di guerra fra la gente, per le strade. Della crisi i viet­na­miti par­lano con­ti­nua­mente, nelle scuole, nei fre­quenti momenti di socia­lità. Si orga­niz­zano anche fra i bam­bini cam­pa­gne per la pace. Il 10 e 18 mag­gio, in tutto il paese, le prime mani­fe­sta­zioni di piazza mai regi­strate negli ultimi decenni sono state orga­niz­zate con il mal­ce­lato — e pre­oc­cu­pato — soste­gno da parte del governo, che ha fatto leva sul tra­di­zio­nale spi­rito del popolo viet­na­mita anche per rispon­dere alla dia­spora cali­for­niana sem­pre pronta ad accu­sare Hanoi. Molti uomini sono stati richia­mati alle armi, molti sono pronti a com­bat­tere (il ret­tore dell’Università di Ho Chi Minh ha scritto una let­tera in tal senso al primo mini­stro Nguyen Tan Dung), con­tro quello che con­si­de­rano il nemico di sem­pre, la Cina. In effetti, l’inatteso inten­si­fi­carsi della crisi ha deter­mi­nato una fitta mili­ta­riz­za­zione dell’area con decine di mezzi navali cinesi, ripe­tuti attac­chi ai pesche­recci viet­na­miti (l’affondamento di una nave da pesca il 26 mag­gio) ed una ten­sione diplo­ma­tica dif­fusa tra le auto­rità viet­na­mite, ma anche in seno alla comu­nità inter­na­zio­nale. Si dà il caso che la lin­gua di bue del Mare Orien­tale dove si con­suma l’aggressione (Mar della Cina, secondo Pechino) in que­ste set­ti­mane è anche il tratto di mare in cui tran­sita di rou­tine oltre l’80% del traf­fico marit­timo glo­bale. La que­stione, evi­den­te­mente, non è un pro­blema esclu­sivo del governo di Hanoi, né solo un tema dell’agenda regio­nale. La que­stione ha domi­nato il sum­mit sulla sicu­rezza dei paesi dell’ASEAN riu­niti a Sin­ga­pore all’inizio di giu­gno (Shangri-La Dia­lo­gue). Ha susci­tato la presa di posi­zione di Austra­lia, Fran­cia e, ovvia­mente, degli Stati uniti (tar­diva e fle­bile quella dell’Unione euro­pea) dai quali il Vietnam si aspetta in qual­che modo un’improbabile voce grossa. Ma non è così evi­dente, nel momento in cui Obama ha un con­ten­zioso aperto anche con la Rus­sia di Putin.
Quali che siano la ragioni di que­sta estem­po­ra­nea azione uni­la­te­rale della Cina – pro­durre un effetto distra­zione dal 25mo anni­ver­sa­rio di Tie­nam­men, disto­gliere l’attenzione dalle mani­fe­sta­zioni sem­pre più fre­quenti di ope­rai e lavo­ra­tori che dimo­strano con­tro le con­di­zioni di occu­pa­zione nel loro paese, ovvero dalle riper­cus­sioni della crisi eco­no­mica che anche in Cina pro­du­cono effetti non mar­gi­nali – si teme che l’escalation delle con­tro­ver­sie sul con­trollo delle isole del Mare Orien­tale possa diven­tare epi­de­mica a livello regio­nale, e di certo non può bene­fi­ciare un paese che, come il Vietnam, è in pieno boom eco­no­mico ma è anche attra­ver­sato dalle lace­ranti con­trad­di­zioni di uno svi­luppo for­sen­nato nel nome dell’integrazione in un mer­cato glo­ba­liz­zato. I dati della cre­scita eco­no­mica regi­strano un incre­mento del 5,4% nel 2013, un aumento dell’export del 16% e una pro­ie­zione altret­tanto posi­tiva per il 2014. E tut­ta­via un recente rap­porto del mini­stero della Pia­ni­fi­ca­zione e degli Inve­sti­menti segnala anche un aumento del numero delle imprese che ces­sano le atti­vità – 27.900 aziende hanno chiuso i bat­tenti tra gen­naio e mag­gio 2014, 20,5% in più rispetto al 2013. Nello stesso periodo 3.900 hanno dichia­rato ban­ca­rotta, con un incre­mento del 7,7% rispetto al 2013. Le ragioni di que­sta con­tra­zione hanno a che vedere con il calo dei con­sumi e le cre­scenti dif­fi­coltà di accesso al cre­dito e ai capi­tali. Nel frat­tempo anche gli inve­sti­menti stra­nieri sono calati del 17% nel 2013 rispetto all’anno pre­ce­dente.
La pre­senza di una classe media urbana dina­mica, eman­ci­pata, lar­ga­mente ispi­rata ai modelli occi­den­tali, con­vive con una realtà rurale molto più povera e appe­san­tita dal pro­gre­dire di un’agricoltura inten­siva vocata all’export (tre rac­colti di riso all’anno stanno appe­stando i con­ta­dini di pesti­cidi e distrug­gendo la bio­di­ver­sità del delta del Mekong), e con sac­che di povertà mar­gi­na­liz­zate e poco visi­bili che, però, rac­con­tano le cre­scenti disu­gua­glianze dell’odierno Viet­nam. L’attuale fase di svi­luppo indu­striale pro­mette bene per gli affari di un’élite impren­di­to­riale che com­prende diversi mem­bri del par­tito e che è pronta a tutto in nome dei soldi. Ma il costo ambien­tale di que­sto pro­cesso è incal­co­la­bile per il paese. La Banca Mon­diale ormai anno­vera il Viet­nam tra le nazioni a medio red­dito (middle income coun­tries), il che signi­fica l’esclusione dai pro­grammi di coo­pe­ra­zione inter­na­zio­nale allo svi­luppo, che infatti stanno lasciando il paese. Vale anche per gli inter­venti nel campo sani­ta­rio; finora hanno per­messo ai malati di Hiv/Aids, tuber­co­losi e mala­ria di acce­dere ai medi­ci­nali sal­va­vita attra­verso il Fondo Glo­bale e il pro­gramma bila­te­rale ame­ri­cano Pep­far. Il primo ha già lasciato il Viet­nam, Pep­far sarà inter­rotto alla fine dell’anno.
A qua­ranta anni dalla fine della guerra, le con­se­guenze sull’ambiente e sulla salute della popo­la­zione sono ancora tutte lì, a testi­mo­niare l’insoffribile vio­lenza di quel con­flitto. Le per­cen­tuali di decessi per tumore in Viet­nam sono tra le più alte al mondo, le più ele­vate in Asia, come regi­strano recenti rap­porti inter­na­zio­nali. La boni­fica dalla dios­sina e dall’agente Orange resta una delle que­stioni nego­ziali ancora aperte con gli Stati uniti, i quali vin­co­lano però i loro impe­gni post-bellici all’accordo com­mer­ciale bila­te­rale Trans Paci­fic Part­ner­ship Agree­ment (TPPA), per il quale si chiede la spe­dita ade­sione da parte del governo di Hanoi.
Un accordo cape­stro che limi­terà mol­tis­simo la capa­cità di auto-determinazione nello svi­luppo indu­striale ed eco­no­mico del paese. Come dire, che il Vietnam ha vinto la guerra, ma rischia di per­dere la pace.



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