Shirin Ebadi: «Saranno le donne a cambiare l’Islam e io tornerò a fare l’avvocato in Iran»

by redazione | 11 Giugno 2014 9:48

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Alla fine chi vincerà: i buoni o i cattivi? «Vinceranno i buoni. Vincono sempre i buoni. Solo che ci vuole più tempo». Shirin Ebadi, 66 anni, l’iraniana Nobel per la pace nel 2003 per le sue battaglie legali in difesa dei diritti umani e in particolare delle donne vittime degli abusi della Sharia, avrebbe buoni motivi per non essere ottimista. Costretta all’esilio dal regime islamico, vive da cinque anni sotto scorta in un luogo segreto forse in America o forse in Gran Bretagna («diciamo che pago le tasse negli States, lavo i vestiti a Londra ma vivo dieci mesi l’anno in una valigia in transito negli aeroporti»), ha difficoltà a vedere le figlie anche loro costrette a scappare e dal 2009 non può tornare a Teheran dov’è rimasto, vecchio e malandato, suo marito. Eppure, alle centinaia di persone di buona volontà accorsi al festival della convivenza «Ritmi e Danze nel Mondo» promosso da anni da don Bruno Baratto a Giavera del Montello (Treviso), è tornata a battere sul suo tasto: vinceranno i buoni. E un giorno o l’altro, chissà, anche lei tornerà a Teheran. Della quale le manca tutto, «anche lo smog». Ma più ancora suo marito: «Ha 75 anni. La sua vita è lì. Quando il regime ha capito che non sarei tornata se l’è presa con lui».
Lo hanno torturato?
«Sì. Torturato. Lo hanno costretto ad andare in tv a lanciarmi le stesse accuse che mi lanciava il regime. Che non sono una brava iraniana. Che ho tradito».
L’ha perdonato?
«Anche mia sorella fu arrestata. Incarcerata. Torturata. Si ammalò, per le torture. Al punto che furono costretti a liberarla. Tutti i beni che avevo sono stati sequestrati. Tutti. Non ho più niente, nella mia patria. E mentre confiscavano mi facevano sapere: stattene zitta e ti restituiamo tutto».
E lei, no.
«Non potevo cedere. Io amo mio marito. Amo mia sorella. Amavo le cose che mi sono state tolte. Amo il mio paese. Ma la mia idea di giustizia mi impone di non tacere. Non starò mai zitta. Mai».
Riceve ancora minacce quotidiane di morte?
«Sì. La paura c’è. Ma va vinta».
Deve essere stato un trauma vedere suo marito accusarla in tv…
«Quando l’ho visto su YouTube sono stata malissimo. Per lui. Sapevo quanto dovevano averlo torturato per fargli dire quelle cose. Aveva perso dieci chili. Era irriconoscibile».
Ci ha parlato, poi?
«Il giorno dopo. Gli ho detto: ho fatto l’avvocato per anni, so cosa ti hanno fatto».
Quindi l’ha perdonato?
«Subito. Sapevo cos’era successo».
A parti rovesciate, avrebbe potuto lei accusare lui?
«Nessuno può sapere quanto riuscirebbe a resistere sotto tortura. Nessuno».
Con il moderato Rohani qualcosa potrebbe cambiare…
«Ma Rohani non è affatto un moderato. La sua storia dice che è un fondamentalista. Con lui nei primi mesi le esecuzioni capitali sono raddoppiate. Hanno giustiziato persone detenute per motivi politici o reati di opinione».
Quanto ha rimpianto le feste per la fuga dello Scià e il rientro di Khomeini dall’esilio?
«Eravamo felici, in quel febbraio del 1979. Felici».
Finché …
«Finché l’8 marzo 1979, sei settimane dopo il ritorno dell’ayatollah, arrivò l’ordine che tutte le dipendenti pubbliche si dovevano coprire la testa con il foulard. Per tutte noi quell’ordine fu uno shock».
Scelsero apposta l’8 marzo, festa della donna?
«Credo di sì»
Lei faceva il giudice, allora, giusto?
«Sì. Ero presidente di sezione del tribunale civile».
Cosa fece: cominciò a fare i processi con il velo?
«All’inizio mi misi in ferie. Dopo una settimana il velo diventò obbligatorio per tutte le donne. Tutte. Anche per uscire di casa. Fui costretta anch’io. Ovvio».
Fino a quando non venne espulsa dalla magistratura.
«Fu due mesi dopo l’arrivo di Khomeini. Fummo tutte retrocesse a impiegate. Mi ritrovai segretaria della stessa corte che avevo presieduto».
Durissima…
«Inaccettabile. Ma questo mi spinse a lavorare ancora di più. Mi dissi: farò di tutto perché il regime debba rimpiangere questa nostra umiliazione. Ho cominciato a scrivere libri. A fondare Ong per i diritti civili. Lavoravo giorno e notte. Giorno e notte».
Lei porta i pantaloni: secoli fa sarebbe stata processata come Giovanna d’Arco, che sui calzoni fu sottoposta a un violento interrogatorio. Sul tema dei diritti la differenza fra il cristianesimo e l’Islam è solo sui tempi?
«Può essere. Non c’è molta differenza, tra quei processi antichi e quelli ai tempi di Khomeini».
Insomma, è solo una sfasatura di secoli.
«Sì».
Quindi pensa che l’Islam possa anche essere liberale.
«Certo».
Lei è ancora islamica?
«Sì. Credente».
Un po’ in crisi, forse?
«Assolutamente no».
Pensa che possa arrivare un papa Francesco, un riformatore, anche nel mondo islamico?
«Certo. Perché no?».
Quando?
«Chi lo sa? Per quanti secoli la Chiesa ha aspettato papa Francesco? Lo so che l’Islam è in ritardo. Voi avete avuto il Rinascimento. Ma i tempi sono cambiati, e crediamo che per recuperare ci vorrà meno tempo».
Grazie al web?
«Anche».
Gli inquisitori di Giovanna d’Arco la processavano in quanto fanatici ma anche in quanto maschi: che peso ha il maschilismo nell’Islam?
«Questo è un nodo importante: tutte le religioni sono, da sempre, più o meno ostili alle donne. Perché sono state interpretate da maschi. La prima peccatrice è stata Eva e tutte le donne devono essere punite per questo. È arrivato il momento che anche le donne possano interpretare la loro religione. Magari fra qualche decennio ci spiegheranno che forse fu Adamo ad offrire il frutto proibito ad Eva».
Insomma, le donne devono occuparsi di teologia.
«Le donne devono conoscere bene le loro religioni. Perché sono le prime vittime delle interpretazioni maschili. E devono imparare a difendersi».
Davanti a una lapidazione come quella in Pakistan di maggio si sente peggio come donna o come islamica?
«Come essere umano».
Se fosse lei il giudice di quel padre e di quei fratelli che hanno lapidato quella ragazza, come si regolerebbe?
«Omicidio volontario».
Cosa pensa dei giudici che in Sudan hanno condannato a morte Meriam, colpevole di essere cattolica?
«Sono sempre molto colpita da tutti i delitti che si commettono in nome della religione».
È la Sharia…
«No, è un’interpretazione sbagliata della Sharia. Io credo nel laicismo. Nella giustizia laica. La religione deve essere separata dallo Stato».
Nell’Ontario la legge riconosce il diritto della comunità islamica di applicare alcuni elementi della Sharia…
«Sono assolutamente contraria. Un Paese, una legge, un diritto per tutti. Le donne vittime di questo codice parallelo sono spesso fuggite dei loro Paesi proprio per sfuggire alla Sharia. Ritrovarsela in Canada è assurdo».
Fino a che punto il rispetto della cultura originaria di un immigrato deve essere tradotto nella nostra legge?
«Il rispetto delle tradizioni deve fermarsi dove viola i principi generali dei diritti umani».
Pensa all’infibulazione?
«La legge deve bloccare queste cose. Insisto: il rispetto per le tradizioni tribali deve fermarsi dove cominciano i diritti umani».
Possono essere le donne a cambiare l’Islam?
«Secondo me sì. Le religioni sono state create per la felicità delle persone o per la loro infelicità?»
Sembrano parole di papa Francesco.
«Mi fa molto piacere».
Su YouTube c’è il video d’una lapidazione in cui proprio altre donne sembrano le più fanatiche…
«La prima condizione per cambiare questo mondo è la conoscenza. Per questo insisto che le donne devono conoscere la loro religione. Devono trovarne lo “spirito”. Devono studiare».
Quello che non vogliono i fanatici di Boko Haram che hanno rapito quelle ragazze in Nigeria…
«Quelli non hanno niente a che fare con l’Islam. Niente. È il massimo degrado di una certa interpretazione maschilista del Libro».
Ha conosciuto Malala, la ragazzina pakistana ferita dai talebani perché rivendicava il suo diritto a studiare?
«Sì. L’ammiro. Ma più ancora ammiro suo padre. Fu lui a insegnarle a leggere e scrivere, lui a spingerla a studiare, lui a incoraggiarla. Lui a spingerla a tenere un diario sul web. Lui a metterla in contatto con la Bbc. Malala è la vittima di un delitto ma il vero eroe è il padre. Che è riuscito a crescere una ragazza così decisa, così forte, in una realtà difficilissima. Una città piccolissima dove i fondamentalisti dominavano tutto. Per quel padre sarebbe stato naturale, comodo, essere come tutti gli altri maschi. Invece non ha voluto. Ha voluto che la sua famiglia fosse diversa. Ecco l’eroismo: si è chiamato fuori».
Lei che il Nobel lo ha vinto, l’avrebbe dato a Malala?
«L’avrei dato a suo padre».
Se tornerà a Teheran, un giorno, qual è la prima cosa che farà?
«Prenderò in affitto un ufficio vicino a dove facevo il giudice e ci metterò un cartello: Shirin Ebadi, Avvocato dei diritti umani».

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