La rinascita del califfato
Quando decise l’invasione dell’Iraq, agli inizi del 2003, George W. Bush, presidente degli Stati Uniti, sostenne di avere due buone ragioni: il regime di Saddam Hussein nascondeva nei suoi arsenali armi di distruzione di massa e i Servizi iracheni avevano rapporti organici con Al Qaeda, l’organizzazione di Osama bin Laden che aveva lanciato un attacco terroristico contro le Torri gemelle nel settembre di due anni prima. Non era vero. Le armi non furono mai trovate e i rapporti con Al Qaeda non vennero provati. Oggi, undici anni dopo, una costola di Al Qaeda, lo «Stato islamico dell’Iraq e del Levante», ha conquistato Falluja, ha espugnato Mosul, ha costretto il governo di Bagdad a proclamare lo stato di emergenza e controlla un territorio, a cavallo della frontiera siriana, dove potrebbe risorgere il Califfato sognato da bin Laden.
Le responsabilità non sono interamente americane. Non saremmo a questo punto se la rivolta contro il regime siriano di Bashar Al Assad non avesse chiamato in Siria una legione islamista molto più numerosa e agguerrita delle cellule di Al Qaeda che operavano nella regione dieci anni fa. Ma un nucleo importante si è addestrato probabilmente nelle montagne dell’Afghanistan, dove la guerra americana, combattuta per tredici anni, non è riuscita a impedire il ritorno dei talebani; mentre altri provengono dal Pakistan, ambiguo alleato degli Stati Uniti, o addirittura dalla Libia, a un tiro di schioppo dalle nostre coste, dove gli americani, sollecitati dalla Francia e dalla Gran Bretagna, hanno abbattuto il regime di Gheddafi per lasciarsi alle spalle un Paese distrutto e ingovernabile, devastato da una guerra civile fra milizie tribali e islamiste.
Non è certamente questo che Barack Obama voleva quando pronunciò il suo generoso discorso nell’aula magna dell’Università del Cairo, all’inizio del primo mandato. Sapeva che la guerra irachena era stata un errore e nessuno più di lui sperava di archiviare la sciagurata politica di Bush per consentire al suo Paese d’imboccare una strada diversa. Ma cercò di mascherare la sconfitta con qualche successo militare, rafforzò i due contingenti americani e sperò di andarsene dall’Iraq e dall’Afghanistan dopo una decorosa, anche se temporanea, vittoria. Con il fallimento di questa ultima operazione, la responsabilità dell’insuccesso appartiene, inevitabilmente, anche all’uomo che occupa ora la Casa Bianca.
Spetterà a lui quindi, nei prossimi due anni, impedire la rinascita del Califfato. Può contare sulla collaborazione della Turchia e ha due carte, entrambe difficilmente confessabili e terribilmente scomode. È costretto a sperare che la guerra siriana non venga perduta da Assad. Deve concordare un’azione comune con l’Iran, lo Stato sciita che ha una considerevole influenza sul regime di Bagdad e un forte interesse a impedire la vittoria dell’estremismo sunnita. Ma dovrà battersi contro quella fazione della società politica americana che ha ispirato la politica di Bush e che lo detesta. I neo conservatori dicevano di volere cambiare la carta del Medio Oriente: un obiettivo, purtroppo, perfettamente raggiunto.
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