Quell’utopia di Olivetti e Le Corbusier

by redazione | 13 Giugno 2014 13:23

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Il 20 settembre 1961 Le Corbusier e Roberto Olivetti, dopo la morte di suo padre Adriano nel febbraio dell’anno precedente, firmavano a Parigi il contratto per il progetto e la costruzione del centro per il calcolo elettronico presso Milano. Ma la storia di quel progetto comincia molti anni prima, con l’interesse di Le Corbusier per il nuovo «villaggio industriale» di Olivetti del 1934 e quello di Adriano Olivetti per l’architettura del Movimento Moderno, un interesse espresso nello steso anno con l’incarico a Figini e Pollini del primo ampliamento della fabbrica Olivetti di Ivrea. Non si deve dimenticare la relazione di Adriano Olivetti con la migliore architettura italiana proseguì negli anni successivi con il piano della valle d’Aosta nel 1943 e, dopo il conflitto, con le collaborazioni con Quaroni, i BBPR, Ridolfi, Cosenza e anche alcuni più giovani.
E’ l’incontro necessario tra i più alti ideali rivoluzionari dell’internazionalismo critico del movimento moderno e quelli profondamente civili della fondazione di Comunità capaci di partecipazione collettiva profonda che Adriano Olivetti vuole concretamente proporre.
A questo incontro è dedicato nel nuovo bel libro di Quodlibet (pp. 125, e 32) dal titolo Le Corbusier e Olivetti: la usine verte per il centro di calcolo di Silva Bodei (che fa anche giustizia della volonterosa, ma molto approssimativa, serie televisiva dedicata di recente alla vita di Adriano Olivetti).
Il libro, ben illustrato ed ottimamente documentato, descrive con precisione i rapporti concreti tra le due personalità, gli incontri, le relazioni nonostante le difficoltà politiche e del conflitto europeo, e soprattutto le ragioni delle relazioni tra gli ideali Corbusierani dell’«usine verte», dei «trois établissements humains» e degli ottimistici «appels aux industriels», con quelli degli ideali politici di «Comunità» (e delle sue connessioni con gli scritti di Simone Weil).
Nell’introduzione sono analizzate le condizioni generali sia politiche che culturali, ed in particolare dell’architettura, in cui questi incontri avvengono e come maturano le trattative per la decisione del progetto di una sede per il futuro dell’elettronica con le sue diverse componenti di servizi già nella seconda metà degli anni cinquanta, nonché per le diverse fasi del progetto che nel 1962 è terminato. Dopo due anni però è la società ad entrare in crisi, e la morte di Corbusier nel 1965 metterà definitivamente fine all’iniziativa.
La crisi della società (a cui segue la morte di Roberto Olivetti nel 1986) sembrano essere i sinistri segni di una crisi in quanto mutazione interrogativa, senza risposta né politica né culturale che sta progressivamente mettendo da parte gli ideali e le utopie concrete che avevano attraversato nel ventennio precedente la stessa cultura architettonica oltre che industriale. Non a caso il titolo della prima parte del libro è la descrizione di una relazione storica tra due persone che decidono di un progetto, una relazione ormai difficilmente rintracciabile: «L’architetto ed il cliente», una relazione a partire da fondamenti ed obbiettivi comuni che il progetto deve concretamente rappresentare. Oggi, come è noto, in genere gli obbiettivi son quelli del mercato e della provvisorietà di cui l’architetto è illustratore di decisioni già prese.
Nel celebre libro di Francis Donald Klingender del 1947, Arte e rivoluzione industriale , segue un’analisi precisa delle questioni che alla metà dell’Ottocento molti intellettuali e artisti si erano posti, dopo mezzo secolo di sviluppo organizzativo della produzione di fronte alla consolidata rivoluzione industriale.
Ma un altro mezzo secolo sarà necessario perché tale rivoluzione divenga per gli architetti «civilisation machiniste» nel significato di rivoluzione sociale, del confronto tra le arti e della loro benjaminiana «riproducibilità tecnica», problemi le cui proposte di soluzioni ideali sarebbero durate non più di mezzo secolo. Sappiamo bene invece che la cultura del capitalismo finanziario globale (che come l’idea di produzione industriale ha radici molto lontane nel tempo) in pochi anni offre alla società ed alle arti nuove questioni e nuove possibilità che, in breve tempo, pur nell’accelerazione incessante degli eventi, hanno proposto anche nuove profonde incertezze e provvisorie mitizzazioni ancora ben lontane dall’essere risolte in positive prospettive. E forse i nostri Olivetti ed i nostri Corbusier devono ancora nascere.

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