Orsoni torna libero ma il Pd lo scarica “Se ne deve andare”

Orsoni torna libero ma il Pd lo scarica “Se ne deve andare”

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ROMA . Non si è preso neppure una giornata di riposo. Giorgio Orsoni ha patteggiato la pena per il finanziamento illecito. Quattro mesi e 15 mila euro di multa. Rimesso in libertà dal gip, dopo una settimana di arresti domiciliari, il sindaco di Venezia è andato subito in Ca’ Farsetti, nel suo ufficio al primo piano, e ha annunciato: «Riprendo a fare il sindaco, non ci sono le condizioni per le mie dimissioni ». Non intende mollare. Nell’aula bunker di Mestre qualche giorno fa, il sindaco di Venezia finito a bagno nell’inchiesta sul Mose, ha raccontato, si è giustificato e ha adottato una linea difensiva chiara: quei soldi, i 110 mila euro “contabilizzati — che però per la Procura sono solo una parte dei fondi presi illecitamente — frutto di sovrafatturazioni e elargiti dal Consorzio Venezia Nuova se li è ritrovati a sua insaputa. Avrebbe insomma semplicemente fatto quanto gli suggeriva il Pd veneto.
La contesa con Renato Brunetta, il competitor nella sfida per l’amministrazione comunale, era particolarmente dura. I Democratici che avevano scommesso su di lui, su un outsider cioè con una buona popolarità, pressava. Ecco, ha spiegato, perché «mi sono ritrovato nei guai». Per la stessa ragione il sindaco ha ritenuto di potere tranquillamente tornare al proprio posto. Ha incontrato la giunta, ha avuto colloqui e riunioni con i consiglieri comunali per tutta la giornata. Come se nulla fosse. Ma ha fatto i conti senza il Pd.
Da Roma infatti la direttiva è tutt’altra. «Orsoni se ne deve andare, non può più restare a guidare l’amministrazione comunale, noi non l’appoggeremo »: è la decisione che trapela dal Nazareno, la sede dem. È iniziato il conto alla rovescia per la sfiducia. Le riunioni sulla vicenda Mose, sul giro pauroso di mazzette e complicità, si sono intensificate nelle ultime ore nel Pd. Alla fine della settimana scorsa Debora Serracchiani, vice segretaria democratica, era andata in Veneto con un mandato preciso: fare chiarezza. Poi gli incontri tra il vice di Renzi, Lorenzo Guerini con Luca Lotti e con il tesoriere Francesco Bonifazi. Sempre in contatto telefonico con il premier in viaggio in Asia. E ieri sera Roger De Menech, il segretario regionale veneto del Pd e Marco Stradiotto il responsabile provinciale avevano il compito di tirare le fila e di convincere i consiglieri democratici recalcitranti. Il Pd staccherà la spina alla giunta Orsoni. Che già ha perso pezzi. L’assessore
alle Politiche educative, Tiziana Agostini infatti ha lasciato l’incarico con una dichiarazione amara: «La politica non può subire condizionamenti…». Il malessere è contagioso. Non c’è bisogno delle invettive di Grillo («Renzi bugiardo: aveva detto a casa con calci nel sedere chi ruba), né degli attacchi di Maroni («E il Daspo?»), per
mandare in fibrillazione i Dem. Dalle dichiarazione di Orsoni ai giudici emergono molti altri particolari. «Mazzacurati è venuto diverse volte a casa mia, ogni tanto mi lasciava dei carteggi e delle buste, non sempre ho aperto per vedere cosa c’era dentro»: dice il sindaco. E il pm gli chiede se avesse mai portato tali carteggi al Pd. La risposta è: «Può anche essere, ma non ricordo. I fatti sono avvenuti anni fa». Orsoni parla delle insistenze di tre responsabili del partito in Veneto, perché chiedesse ulteriori finanziamenti a Mazzacurati, e si difende: «Avevo delle perplessità. Ma mi dissero che era sempre avvenuto così a Venezia, che si andava a chiedere il contributo a Mazzacurati. Che era una cosa avvenuta in passato con i precedenti sindaci».
Secondo Orsoni tuttavia, Giovanni Mazzacurati presidente all’epoca del Consorzio è solo «un millantatore», e ricorda: «Eravamo in disaccordo specie sull’Arsenale. Così come molti sanno ho fatto un provvedimento per restituire quello spazio alla città. Avemmo uno scontro, non mi meraviglia che poi ci sia stato un certo risentimento». Come del tutto lecito il sindaco ritenne il fatto di dare al Consorzio il suo numero di conto. L’inchiesta è tutt’altro che conclusa, il lavoro dei giudici nel pieno dei riscontri e delle verifiche.



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