È nato in Italia, ma è trattenuto in un Cie
Era esattamente un anno fa quando Alma Shalabayeva veniva rimpatriata in Kazakistan. Dal Centro di identificazione e di espulsione di Ponte Galeria era stata trasferita, in tempi insolitamente celeri per quel posto, all’aeroporto di Ciampino da cui sarebbe partita con un volo diretto organizzato dal governo kazako. Una procedura decisamente anomala rispetto a quella adottata per le donne e gli uomini che sono trattenuti nei cinque Cie d’Italia attualmente funzionanti.
Capita raramente, infatti, che nelle tre ore successive all’udienza di convalida davanti al giudice di Pace, la persona sia rimpatriata. Nella stragrande maggioranza dei casi la realtà è un’altra: il rimpatrio non è detto che avvenga, e se avviene non è immediato. I dati, raccolti tra gli altri da Medici per i diritti umani, dimostrano che meno dell’1% degli immigrati irregolari viene effettivamente riportato nel proprio paese. E tra quelli trattenuti nei Cie, ciò corrisponde a una percentuale del 46%. Per tutti, il fattore di maggiore difficoltà è rappresentato dall’attesa del rilascio per l’una o per l’altra destinazione: o verso l’espulsione o verso il rilascio di un documento regolare.
Dall’udienza di convalida passerà almeno un mese prima dell’incontro successivo (l’udienza di proroga) con il giudice di pace. In quei lunghissimi trenta giorni la persona, qualunque sia la sua situazione, sarà costretta nel centro di identificazione e di espulsione. Le condizioni in cui vertono questi centri sono al di sotto di standard di vita dignitosi. Nell’ultimo anno di Cie si è parlato molto facendo emergere le innumerevoli contraddizioni e criticità che segnano questi posti. Al ministero dell’Interno sono state presentate delle proposte che mirano al loro superamento, argomentato in particolare con l’inefficacia rispetto allo scopo previsto (e basti riflettere su quel dato prima accennato a proposito del tasso dei rimpatri).
Si può dire che a questo punto il trattenimento perda qualunque significato e qualunque utilità. In quel periodo di tempo, infatti, le persone dovrebbero essere identificate ma anche questo non è detto che accada a causa delle difficoltà di comunicazione con i consolati e le ambasciate che dovrebbero occuparsi del riconoscimento dei connazionali. A volte capita che anche di fronte al mancato riconoscimento da parte delle autorità consolari, il trattenimento non venga meno.
È questo il caso di un uomo, V.B., trattenuto da cinque mesi al Cie di Ponte Galeria la cui ambasciata di riferimento ha risposto negativamente sul suo riconoscimento. A complicare la situazione è la città di nascita: Aversa, in Italia. È uno dei tanti italiani di fatto che però non hanno i documenti necessari a dimostrarlo e richiedere la cittadinanza. Si tratta di una persona per la quale è difficile immaginare un rimpatrio perché, in quale paese potrebbe tornare? Nel frattempo, però, il giudice di pace competente a decidere della sua libertà, non consente il rilascio in quanto «è in attesa del giudizio del tribunale sulla pericolosità sociale », una procedura prevista per chi esce dal carcere.
E così, dopo la detenzione, il trattenimento. E poi, chissà. È questa totale incognita sul proprio destino che ha determinato la decisione di V.B. di far sentire la sua voce. Da quarantott’ore chiede di poter parlare con la questura della sua situazione. A lui si sono aggiunti molti altri trattenuti, che lamentano la scarsa attenzione nei loro confronti da parte del Giudice di Pace. È l’ennesima conferma del fallimento di un’istituzione, il Cie appunto, che prima ancora di essere iniqua appare totalmente insensata.
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