A morte la sposa bambina che si era ribellata al marito
A 14 anni è diventata moglie, a 15 anni madre, a 17 anni omicida. Razieh Ebrahimi, che di anni oggi ne ha 21, ha confessato di aver ucciso l’uomo che era stata costretta a sposare, ed ha un appuntamento col patibolo in Iran.
Per salvarla si sono mobilitate molte organizzazioni internazionali per i diritti umani, tra cui «Human Rights Watch» e «Amnesty International», ma la donna potrebbe essere impiccata questa settimana.
Razieh è stata data in sposa per volere del padre a un vicino di casa che faceva l’insegnante. Per tre anni — ha raccontato la donna — l’ha picchiata e insultata, finché una sera dopo l’ennesimo litigio seguito dalle botte, lei ha deciso di reagire. «Non ho chiuso occhio quella notte — ha raccontato al quotidiano iraniano Shargh —e al mattino mi sono ritrovata seduta a guardarlo dormire. Pensavo a quello che mi aveva fatto, a tutte le umiliazioni: ogni singolo evento mi è passato di fronte agli occhi come in un film. Quella mattina ho preso la pistola e gli ho sparato». Non ha confessato subito: all’inizio ha sepolto il cadavere in giardino e denunciato la sua scomparsa alla polizia. E’ stato il padre di Razieh a scoprire la verità e a denunciarla.
La sua storia getta luce su due gravi questioni. La prima è il fenomeno delle spose bambine (un problema non solo in Iran). Nella Repubblica Islamica, l’età minima per il matrimonio è di 13 anni per le femmine e di 15 per i maschi (ma anche meno se c’è il consenso dei tutori e del tribunale). Il caso di Razieh non è unico e, secondo l’avvocata iraniana Shadi Sadr, è un atto di disperazione: «Donne come Razieh vengono in pratica stuprate sotto il pretesto del matrimonio. Per venirne fuori, alla fine, uccidono se stesse o il marito».
La seconda questione è quella delle esecuzioni per crimini commessi prima dei 18 anni: una violazione della Convenzione sui diritti dell’Infanzia. L’Iran l’ha ratificata ma continua a punire come adulti i bambini a partire dai 15 anni e le bambine dai 9. Negli ultimi 5 anni è successo solo in Iran, Yemen, Sudan, Arabia Saudita e per mano di Hamas a Gaza.
Nel maggio dell’anno scorso, Razieh Ebrahimi ha già rischiato di finire impiccata, ma quando i carcerieri sono andata a prenderla e ha raccontato di essere stata arrestata a 17 anni, l’hanno riportata indietro. L’avvocato ha cercato di far riaprire il caso, in nome di recenti emendamenti al codice penale (che prevedono che il giudice possa valutare la capacità del minorenne di capire le conseguenze delle proprie azioni), ma la Corte Suprema ha rifiutato. La campagna internazionale in suo favore si è fatta più intensa negli ultimi giorni. E anche all’interno dell’Iran, la società civile è sempre più attiva contro la pena capitale. Una via per salvarla consisterebbe nell’ottenere il perdono dei parenti della vittima: possono accettare del denaro in cambio della vita del condannato. Lo scorso aprile, ad esempio, una madre ha perdonato l’assassino del figlio quando aveva già il cappio al collo: un gesto che ha ispirato altri. Ma nel caso di Razieh, questa possibilità pare al momento fuori discussione.
Viviana Mazza
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