Messico-Usa I bambini della frontiera
WASHINGTON – I BAMBINI lo chiamano “El Tren de la Muerte”, ma nessuno sa davvero quanti di loro quel treno della morte uccida.
Però tanti. Daniel Zavala ricorda di averne visti scivolare molti dal tetto dei carri merce traballanti lungo i 3mila chilometri di rotaie fra la partenza da El Salvador fino all’arrivo a El Paso, nel Texas, ma il treno non si ferma per raccoglierli, perché i bambini sono figli del nulla. Non esistono. Una notte vide una bambina che si era addormentata rotolare dal tetto e sentì soltanto un urlo allontanarsi nella notte. Qualcuno sparse la voce che le ruote del treno le avevano tranciato le gambe. Magari non è vero.
Anche Daniel, come i 60, o 70, o 80mila minori — duecento al giorno, morto più morto meno — che quest’anno soltanto hanno lasciato o lasceranno l’El Salvador, l’Honduras, il Guatemala, il Messico affidati dalle famiglie ai coyotes , agli sciacalli che li imbarcano nel viaggio verso la “Frontera del Grande Norte”, degli Stati Uniti, deve soltanto guardare avanti. Come la biblica moglie di Lot, mai voltarsi indietro. Per lui, per tutti loro, l’andata è un tuffo nel vuoto, ma il ritorno è impossibile. Se tornano sanno che le gang, i trafficanti, gli “scafisti” del Tren de la Muerte li uccideranno comunque.
Il viaggio che Daniel ha raccontato alla Cnn cominciò quando aveva 16 anni e i narcos entrarono a casa sua a San Salvador per spiegare a lui, e alla madre, che ormai era grande abbastanza per entrare nell’organizzazione e non aveva scelte. Tranne una: tuffarsi nei 3000 chilometri di viaggio attraverso Guatemala City, Puebla, San Luis Potosi, Durango, Chihuahua e il Rio Grande, da attraversare naturalmente a piedi. Evitando d’inciampare nei cadaveri, grandi e piccoli, disseminati nei sentieri e lasciati ai coyote, quelli per bene, a quattro zampe. I parenti, che non erano poveri, ma soltanto disperati, raschiarono 7mila dollari dai materassi, fecero debiti, vendettero tutto quello che era vendibile e Daniel si arrampicò sul tetto del primo merci di passaggio verso il nord, sotto gli occhi dei “coyotes” che sparavano, o buttavano giù, quelli che tentavano di salirci sopra senza avere pagato. Naturalmente sotto gli occhi vitrei e indifferenti della Policía ben pagata per non vedere.
L’illusione, la speranza, il “tutto o niente” di questi viaggiatori della notte che sono l’esatto equivalente degli africani e degli asiatici che s’imbarcano sui relitti galleggianti verso Lampedusa, è di trovare,
lassù oltre il fiume, quella nazione che ha scolpito ai piedi della Statua della Libertà, le parole della poetessa Emma Lazarus: «Datemi i vostri poveri, i vostri affranti, le vostre folle ammassate… e accenderò la mia lanterna accanto alla porta d’oro». Le loro storie sono tutte uguali. Violenze, botte e reclutamenti forzosi per i maschi nelle gang che hanno bisogno di continui rinforzi e rimpiazzi, per i vuoti lasciati caduti nella loro guerra quotidiana. Violenze, botte e stupri per le femmine, a cominciare da età che preferiscono non quantificare in un numero.
Ma dietro la golden door, la porta d’ora, Daniel, e le altre migliaia di bambini a volte talmente piccoli da dover portare cucita sulla maglia una pezza con il telefono e l’indirizzo di un parente negli Usa ricamato sopra, non trovano la poetessa con la sua lanterna, ma le guardie del Border Patrol. Ogni giorno arrestano decine di bambini e di ragazze, per rinchiuderli in centri di accoglienza dove, ha raccontato Enrique, un quattordicenne, al New York Times , «non ci sono finestre e siamo così tanti da dover dormire a turno sul cemento, perché non c’è posto per sdraiarci tutti».
Se non siete mai stati alla Frontera del Texas e dell’Arizona in estate, non riuscirete a immaginare quali forni possano diventare, casematte senza areazione né finestre, di giorno e quali frigoriferi quando cala il sole sul deserto.
Quella dei migranti bambini — ne arrivano con ancora i resti del pannolino fissato dalla madre e disintegrato nei sei giorni di viaggio — è l’ultima incarnazione della inarrestabile corsa verso il Grande Norte . La speranza è che le autorità della California, dell’Arizona, del Texas dove l’onda di marea arriva, siano mosse a pietà da quei bambini e ragazzi, più di quanto non lo sarebbero con genitori e adulti, ma la pietà si sbriciola nel solvente dell’opportunità politica, come il pannolino sbrindellato di una bambina di quattro anni che se la fece addosso per il terrore della guardia che la interrogava nella base aerea di Lackland in Texas, oggi convertita in centro di raccolta.
La metà di loro sono immediatamente rispediti oltre frontiera, al loro destino e senza neppure l’assistenza, per modo di dire, dei coyotes che alle fermate del treno si arrampicavano con loro per dar loro abbastanza acqua e cibo per farli sopravvivere. Gli altri, come Daniel Zavala, che hanno un aggancio, un nome, un parente legale negli Usa, entrano nel labirinto delle procedure d’immigrazione per asilo politico, dove le probabilità di smarrirsi sono altissime, quasi quanto quelle di incontrare un serpente a sonagli nel tragitto a piedi verso il Rio Grande. Per uscirne con il rettangolino plastificato della “residenza”, un tempo chiamata la “carta verde” che verde non è più, serve il filo di un avvocato che sappia, conosca, riconosca le trappole e le vie giuste. I figli del Tren de la Muerte con assistenza legale hanno nove volte più probabilità di arrivare al permesso di soggiorno rispetto a chi si arrangia da solo, al massimo con un interprete. Ma un avvocato costa almeno 3.500 dollari, tre o quattro volte il guadagno mensile delle famiglie che li accolgono.
Daniel, che ora ha 17 anni, è stato fortunato. Non è rotolato giù, nel sonno, dal tetto dei carri. Non è morto di sete e d’insolazione nelle ore di lento viaggio sotto il sole del Messico sdraiato come un pollo sopra la piastra di lamiera rovente. Non è rimasto impigliato nei campi di concentramento alla frontiera. Dopo pochi giorni, è stato passato all’assistenza sociale, molto più umana, poi a un’organizzazione chiama Kind, acronimo di volontariato legale e umano che riesce a raccogliere 3mila avvocati disposti a lavorare pro bono , gratis, come tutti gli studi legali dovrebbero di tanto in tanto fare. Chi lo ha accolto gli ha indicato la strada maestra per uscire dal labirinto: la divisa della Us Army Rotc, l’uniforme dei corsi premilitari al liceo che indossava, tutto tirato e splendente di mostrine e insegne, davanti alla Commissione d’inchiesta parlamentare, per raccontare il suo viaggio.
Per sfuggire alle armi che nel El Salvador lo avrebbero ucciso, Daniel dovrà quindi affidarsi alle armi, sotto la bandiera degli Stati Uniti. Sempre armi, dunque, ma almeno questa volta sarà lui a imbracciarle.
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