Le mani di Damasco e Teheran sull’Iraq

by redazione | 27 Giugno 2014 9:54

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Rasha ha 28 anni, un bam­bino di tre anni tra le brac­cia e un altro in arrivo. Mer­co­ledì ha cam­mi­nato con il marito per chi­lo­me­tri verso il primo chec­k­point utile per il Kur­di­stan. Il suo vil­lag­gio, Ham­da­niya, ultimo tar­get dei mili­ziani isla­mi­sti, è oggi una comu­nità fan­ta­sma: migliaia i civili in fuga verso Irbil, ter­ro­riz­zati dalle con­se­guenze dell’occupazione del gruppo estre­mi­sta sun­nita. Rasha spera di tro­vare un luogo dove rifu­giarsi, altri­menti, sospira,«dormiremo in strada».

Nelle stesse ore, quello che resta dell’esercito gover­na­tivo – a cui si sono uniti nelle ultime due set­ti­mane due milioni di volon­tari sciiti – com­bat­teva a Balad, a nord della capi­tale. Scarsa la pre­senza di truppe rego­lari nelle regioni set­ten­trio­nali, quasi del tutto occu­pate dai jiha­di­sti e in parte con­trol­late dai pesh­merga curdi. Irbil sta otte­nendo con­si­stenti vit­to­rie nella strada per l’indipendenza, andando a pren­dersi le posi­zioni abban­do­nate dall’esercito iracheno.

Pro­se­guono intanto gli scon­tri intorno alla raf­fi­ne­ria di Baiji, par­zial­mente in mano all’Isil, che ieri ha occu­pato altri pozzi di petro­lio vicino Bagh­dad, a Man­sou­riyat al-Jabal. Bat­ta­glia in corso tra eser­cito e mili­ziani anche all’università di Tikrit, men­tre bombe gover­na­tive pio­ve­vano sul com­plesso pre­si­den­ziale della città natale di Sad­dam Hus­sein, il cui fan­ta­sma aleg­gia sull’attuale crisi irachena.

L’autoritarismo del rais, che seppe tenere insieme etnie e sette reli­giose, è oggi motivo di rim­pianto per molti in Iraq. Come fun­ghi riap­pa­iono le mili­zie baa­thi­ste, oggi al fianco dell’Isil per ripren­dersi il paese. Un’alleanza vitale: i gene­rali dell’ex regime cono­scono a mena­dito il ter­ri­to­rio e godono di un’organizzazione mili­tare di livello. La presa di Mosul, si dice, sarebbe stata pos­si­bile gra­zie al fon­da­men­tale inter­vento baa­thi­sta, che scom­bina le carte del gioco delle alleanze regionali.

Se, infatti, a desta­bi­liz­zare l’amministrazione Washing­ton non fosse bastata l’occupazione di un terzo del paese, invaso dalle truppe Usa e poi abban­do­nato non a godersi la “demo­cra­zia”, ma in preda a cata­stro­fici set­ta­ri­smi interni, oggi ci si mette anche Dama­sco. Il regime di Assad, la cui caduta è da almeno tre anni l’obiettivo della Casa Bianca, ha optato per un inter­vento nel vicino Iraq nello stile di quello per­pe­trato in casa: bom­bar­da­menti dell’aviazione con­tro le posta­zioni jiha­di­ste. Uno scon­fi­na­mento che il pre­mier ira­cheno Maliki ha salu­tato con entu­sia­smo, al con­tra­rio dell’alleato (quasi ex) statunitense.

Tre giorni fa aerei mili­tari siriani hanno preso di mira la pro­vin­cia sun­nita di Anbar. Col­pita la città di Al Qaim, al con­fine tra Iraq e Siria e caduta nelle mani dell’Isil che ha potuto così pro­se­guire indi­stur­bato il traf­fico di armi e mili­ziani da una parte all’altra della fron­tiera. Dome­nica jeep Usa in dota­zione all’esercito ira­cheno cor­re­vano per le strade della pro­vin­cia di Aleppo. Ieri il governo di Bagh­dad ha con­fer­mato i bom­bar­da­menti, pro­vo­cando la rea­zione del segre­ta­rio di Stato Usa. Kerry, che a ini­zio set­ti­mana ha fatto visita a Maliki per con­vin­cerlo a cedere alla crea­zione di un governo di unità nazio­nale, se ne è ripar­tito a mani vuote, imba­raz­zato dal no del pre­mier che ha nella pra­tica smen­tito la noti­zia di un nuovo ese­cu­tivo di lar­ghe intese che lo stesso Kerry aveva dato per certo.

«Abbiamo reso chiaro a tutti nella regione che non abbiamo biso­gno di inter­venti che pos­sano esa­cer­bare le divi­sioni – ha detto Kerry da Bru­xel­les – È impor­tante che niente infiammi i set­ta­ri­smi». Un discorso chia­ra­mente rivolto a Dama­sco e Tehe­ran, già attivi: la Siria vuole impe­dire una cre­scita spro­por­zio­nata dei gruppi di oppo­si­zione al regime e l’Iran (che sta­rebbe inviando armi auto­ma­ti­che e mis­sili, oltre a droni di rico­gni­zione) intende usare Bagh­dad come piede di porco per ribal­tare defi­ni­ti­va­mente gli equi­li­bri medio­rien­tali, oggi favo­re­voli alle petro­mo­nar­chie sun­nite del Golfo. Sep­pure gli inte­ressi di Washing­ton siano ina­spet­ta­ta­mente gli stessi dei due nemici, Obama non può per­met­tersi di lasciare spa­zio di mano­vra a Tehe­ran né raf­for­zare indi­ret­ta­mente il regime di Dama­sco senza gestirne moda­lità e conseguenze.

In casa Maliki balla da solo e, dopo aver rifiu­tato i caldi inviti della Casa Bianca a farsi da parte, ha detto ieri di volersi atte­nere alle tem­pi­sti­che pre­vi­ste dalla legge: mar­tedì il par­la­mento eletto a fine marzo si riu­nirà per nomi­nare il pre­si­dente a cui spet­terà il com­pito di indi­care il capo del governo. Maliki tenta di desta­bi­liz­zare il fram­men­tato fronte delle oppo­si­zioni per garan­tirsi la mag­gio­ranza: da una parte, accusa le fazioni sun­nite di aver com­plot­tato con l’Isil per ricon­qui­stare Bagh­dad; dall’altra usa la chia­mata alle armi del lea­der reli­gioso sciita Al-Sistani per con­vin­cere i par­titi sciiti ad ade­rire al suo governo.

In un simile con­te­sto, l’Arabia sau­dita –finan­zia­tore dei gruppi radi­cali sun­niti in Siria e Iraq – non resta a guar­dare: il re Abdal­lah al-Saud, che oggi incon­trerà Kerry, ha fatto sapere di voler pren­dere tutte le misure neces­sa­rie alla sal­va­guar­dia degli inte­ressi nazio­nali. Ovvero, delle reti di potere occulte dira­mate in tutto il Medio Oriente.

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