by redazione | 23 Giugno 2014 12:33
TOKYO — I colpi di tamburo risuonano nell’aria immobile che circonda il santuario di Yasukuni, nel centro di Tokyo. Di fronte all’altare vecchi e giovani, madri e figlie adolescenti, tutti vengono a rendere omaggio ai due milioni e mezzo di caduti nelle guerre combattute dal Giappone. Due inchini, due battiti a mani giunte, attimi di raccoglimento, nuovo inchino. All’interno, il gran sacerdote introduce il visitatore nel sancta sanctorum . Tre novizie vestite di bianco e rosso guidano nel rituale di purificazione, poi di nuovo l’omaggio, la preghiera, la benedizione.
La stessa scenografia che ha accompagnato la visita del primo ministro Shinzo Abe nel dicembre scorso: un gesto che ha rotto con una prassi decennale, che vedeva i leader giapponesi tenersi alla larga da Yasukuni. Perché nel santuario sono iscritti anche i nomi di 14 criminali di guerra, considerati responsabili delle atrocità commesse dalle armate nipponiche nel secondo conflitto mondiale. Una decisione, quella di Abe, che ha scatenato le ire dei vicini asiatici, in primo luogo la Cina, vittime nel passato dell’imperialismo giapponese. I cui fantasmi ancora si agitano nel museo annesso al santuario.
Qui il visitatore è accolto da uno Zero, l’aereo protagonista delle missioni kamikaze, e dalla locomotiva del ponte sul fiume Kwai, la ferrovia costruita dai prigionieri di guerra inglesi. Fra antiche spade e armature di samurai, dopo una mappa che illustra le aggressioni coloniali occidentali in Asia, si spiega la necessità di combattere la Seconda guerra mondiale per procurarsi le risorse bloccate dalle sanzioni e l’inevitabilità del conflitto di fronte all’intransigenza americana. Il dopoguerra è stato il «tribunale dei vincitori», commenta amaro il monaco che fa da guida.
Uno sfondo inquietante, quello di Yasukuni, nel momento in cui il governo Abe è impegnato nel far approvare una reinterpretazione della Costituzione pacifista imposta dagli Usa al Giappone sconfitto: una revisione che punta a consentire un impegno più attivo delle forze armate di Tokyo, finora costrette a un limitatissimo ruolo di auto-difesa.
«Yasukuni è un santuario privato, non è un’organizzazione governativa — ci tiene a precisare Tomohiko Taniguchi, consigliere speciale del premier e uno degli uomini chiave del governo giapponese —. Dobbiamo chiederci: Abe aderisce alla versione della storia raccontata nel museo? Abe vuole riportare indietro l’orologio della storia? Se la risposta è sì, allora è un leader pericoloso. Ma la risposta è no».
Ancora più netto, perché fuori dall’ufficialità, il giudizio del professor Kuni Miyake, direttore di ricerca al Canon Institute for Global Studies: «Abe non è un estremista di destra come lo descrive la stampa occidentale. È un conservatore patriottico, ed è anche un realista pragmatico, che sa che deve compiacere i suoi sostenitori, fra i quali c’è pure la destra xenofoba. Ma sa tenere sotto controllo quegli idioti. Yasukuni non rappresenta né il governo né la maggioranza silenziosa del Paese. La Cina ha sollevato la questione solo per ragioni politiche».
Ma non tutti sono sulla stessa lunghezza d’onda. Il principale quotidiano giapponese, lo Asahi Shimbun , è critico verso Abe. In redazione, accusano apertamente il premier di aver creato ad arte le tensioni con la Cina e la Corea, con provocazioni come la visita a Yasukuni, per avere un’arma in più a favore della revisione della Costituzione. E sottolineano che sull’argomento l’opinione pubblica resta divisa: un sondaggio pubblicato ieri mostrava il 55 per cento dei giapponesi contrari all’adozione di una nuova politica di difesa. Il progetto si è scontrato anche con le perplessità di deputati dell’opposizione e della stessa maggioranza, in particolare del partito buddhista Nuovo Komeito, che appoggia il governo. Ad ogni modo, Abe intende presentare domani la bozza di revisione costituzionale, puntando a una sua approvazione in una riunione di Gabinetto il primo luglio .
Ma perché ripudiare decenni di pacifismo inscritto nella Legge fondamentale e resuscitare agli occhi dei Paesi vicini lo spettro del militarismo giapponese? «La reinterpretazione della Costituzione è una salutare mossa geopolitica — sostiene il professor Miyake —. La versione finora accettata poteva andar bene per la Guerra Fredda, ma ora per la prima volta dal conflitto mondiale il Giappone deve fronteggiare un pericolo fisico, una minaccia che viene dal mare. Al governo sanno benissimo che la Cina sta arrivando nelle nostre acque territoriali. Pechino non conosce le regole del gioco, sono nuovi al mondo e xenofobi».
«La crescita pacifica della Cina non è pacifica affatto – conferma Morio Matsumoto, direttore del desk cinese al ministero degli Esteri – Dobbiamo convincere Pechino, attraverso un mix di dialogo e pressioni, a entrare nel sistema di regole di sicurezza internazionali. Vogliamo che la Cina sia un partner responsabile. Non c’è ragione per un conflitto armato, ma potrebbe sempre verificarsi uno scontro accidentale». Il riferimento è alla contesa per le isole Senkaku (Diaoyu per i cinesi), il gruppo di scogli disabitati la cui sovranità è rivendicata sia da Tokyo che da Pechino.
«La Cina sta mettendo in atto azioni provocatorie per cambiare lo status quo — denuncia Takehiro Kano, direttore per sicurezza nazionale al ministero degli Esteri —. Non diciamo che si tratta di una minaccia, ma siamo sicuramente preoccupati per la crescita di un budget militare che è 3-4 volte maggiore del nostro. Per noi la diplomazia deve venire prima di tutto, ma la difesa è l’ultima risorsa».
Ecco allora perché Tokyo intende prepararsi, come spiegano i documenti ufficiali, «per situazioni imprevedibili che potrebbero verificarsi nell’ambiente di sicurezza che circonda il Giappone, che sta diventando sempre più severo».
In che modo questo stia avvenendo, lo spiega sempre il consigliere Taniguchi: «Per anni abbiamo avuto “incontri ravvicinati” in mare fra vascelli cinesi e giapponesi, praticamente ogni giorno. Ora questo accade nei cieli, i caccia di Pechino sfiorano i nostri ricognitori. La Cina sta mandando chiari segnali di allarme. Malgrado ciò, le forze di Tokyo stanno dimostrando estrema disciplina: senza, un incidente potrebbe essere già avvenuto».
Una situazione di estrema criticità, quella che si è creata in Asia orientale, che rimette in questione le vecchie certezze e abitudini e chiama in causa le alleanze internazionali. «Il tempo è maturo per un ruolo proattivo del Giappone — afferma Taniguchi — Finora siamo stati fortunati a essere protetti dall’ombrello Usa, durante la Guerra Fredda il Giappone non aveva bisogno di uscire dai suoi confini. Ora gradualmente stiamo venendo fuori dal guscio».
Per farlo, Abe sta tessendo una fitta rete di rapporti internazionali, a partire dalle democrazie dell’Asia-Pacifico, come India, Indonesia o Australia. Ma senza trascurare i Paesi europei. In particolare l’Italia, fanno notare i diplomatici della nostra ambasciata a Tokyo, riveste un ruolo centrale come interlocutore interessato al rispetto della legalità internazionale: la recente visita a Roma del leader giapponese è servita a dare linfa a quest’asse. «Insomma, preferite dar retta a un regime comunista autoritario o a una democrazia? — sintetizza Taniguchi —. Dopotutto, siamo noi quelli senza prigionieri politici…».
Luigi Ippolito
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