È finito l’incubo per Meriam «Sono stordita dalla felicità»

by redazione | 24 Giugno 2014 12:30

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Meriam Ibrahim, la sudanese cristiana condannata all’impiccagione per apostasia e alla fustigazione per adulterio, è tornata in libertà dopo mesi di carcere con il suo piccolo di 20 mesi e la figlioletta partorita in cella. La sentenza di primo grado è stata annullata ieri dalla Corte d’appello dopo che la grande mobilitazione internazionale aveva messo in grande imbarazzo Khartoum. In prima linea per l’Italia la ong Italians for Darfur guidata da Antonella Napoli: al suo appello ha aderito anche il presidente Napolitano. A Roma l’ambasciatrice sudanese Amira Daoud Hassan Gornass da subito aveva parlato di «grandissima ingiustizia». Giovedì la Commissione sudanese per i diritti umani, organo consultivo di nomina politica, aveva dichiarato incostituzionale la condanna
La porta della cella si apre nelle prime ore del pomeriggio. Fuori il termometro segna 40 gradi, ma l’aria della libertà è una brezza freschissima. «Sapevo che questo momento sarebbe arrivato, ma non mi aspettavo così presto, è stata una grande sorpresa, sono stordita dalla felicità» dice al telefono con il Corriere Meriam mentre con il marito Daniel e i due bambini viene portata non a casa, ma in un luogo segreto. «Per motivi di sicurezza, qui mi sento in pericolo» rivela la donna.
A rappresentare una minaccia alla sua incolumità alcuni sedicenti parenti, tra cui un presunto fratello maggiore, che a febbraio avevano denunciato la giovane pretendendo di rivelarne la vera identità: non la donna figlia di un musulmano che l’ha abbandonata a 5 anni e di una cristiana che l’ha cresciuta da sola e morta qualche tempo fa come sostiene lei, ma la figlia di due musulmani convertitasi per sposare un cristiano nel 2011. Un «fratello» che le ha giurato la morte: è un’«apostata e un’adultera che deve morire se non si pente e non si converte all’Islam», aveva sentenziato giorni fa l’uomo in una dichiarazione choc alla Cnn .
Condannata alla pena capitale a metà maggio da una corte locale ispirata alla sharia con l’accusa di aver rinnegato la religione del padre, poteva ritirare tutto e «pentirsi» per salvarsi come era capitato in passato ad altre donne. Invece lei è la prima che ha trovato il coraggio e la forza di andare avanti, di allattare e cambiare una neonata dentro una cella di pochi metri, di far giocare il primogenito, Martin, di poco più di venti mesi, nello stesso spazio angusto. Non l’ha fatta demordere neanche il rischio che se il processo fosse andato per le lunghe, al compimento dei due anni del piccolo, glielo avrebbero sottratto senza affidarlo al padre, che non gode di nessun diritto visto che il loro matrimonio è considerato nullo: la sharia non consente alle donne di sposare un non musulmano.
«Ero decisa ad andare fino in fondo, sapevo di aver ragione e sentivo il sostegno di tutti voi che vi siete mobilitati in Italia e a livello internazionale ma anche e molto in Sudan» racconta.
Cinque mesi di carcere non hanno piegato Meriam. «Ero pronta a passare altro tempo in prigione con i miei due piccoli» confida la giovane sudanese che tre settimane fa ha partorito in cella la sua secondogenita, Maya, in realtà «venuta al mondo» davvero soltanto ieri.
Meriam, supportata da un team di avvocati, sapeva bene che la sentenza di primo grado era incostituzionale. La condanna a morte per apostasia si basava sull’articolo 126 del codice penale sudanese del 1991, fortemente ispirato alla sharia. Un articolo in evidente contrasto con la Costituzione di Khartoum emanata nel 2005 che garantisce espressamente all’articolo 38 la libertà religiosa e di culto.
«In Sudan c’è una gran confusione a tutti i livelli», commenta la donna, che, con un diploma universitario in tasca, gestiva una serie di attività a Khartoum, tra cui un negozio. Alcuni sospettano che dietro la denuncia dei presunti familiari ci sia la volontà di subentrare nei suoi affari.
«Se lascerò presto il mio Paese? Non lo so, non ho programmi al momento» aggiunge un po’ confusa, ribadendo che la scarcerazione di ieri è stata un sogno inaspettato. Ma è noto che da mesi il marito, un sud sudanese con cittadinanza anche americana, si è attivato per poter portare come rifugiati moglie e figli negli Stati Uniti, nel New Hampshire, a Manchester, dove con i suoi fratelli si era trasferito nel 1998 in fuga dalla guerra civile. Nel 2009, in uno dei suoi viaggi di lavoro a Khartoum, quando sempre in sedie a rotelle faceva il traduttore per una Ong, ha incontrato Meriam, e non l’ha più lasciata. Lui dice che si sono incontrati in chiesa, quando lei era già una cristiana praticante. Comunque sia andata la sua battaglia costituisce un precedente importante: finora nessuna «apostata» è stata giustiziata in Sudan, ma soltanto perché le «imputate» si sono pentite. Questa è la prima volta che il principio costituzionale della libertà di religione viene fatto valere. Grazie a Meriam, sarà più difficile d’ora in poi emettere quel genere di sentenze.
Alessandra Muglia

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