La corruzione in Italia, ecco perché il sistema non è riformabile

by redazione | 15 Giugno 2014 17:18

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Imper­ver­sano le notizie-shock sul dila­gare della corruzione e ogni giorno ci si domanda quale altro nome eccel­lente lo tsu­nami tra­vol­gerà. La realtà supe­rando la fan­ta­sia, si atten­dono sor­prese. È un déjà vu, il gioco di società che dise­gna il ritratto più fedele della società ita­liana ai tempi della nuova moder­niz­za­zione. Se al Vimi­nale è stato il capo di un’associazione a delin­quere e ai ver­tici della Guar­dia di finanza i garanti di un gigan­te­sco sistema di tan­genti, non potrebbe darsi che tra i regi­sti di una mega-frode fiscale spun­tino un mini­stro delle Finanze, un giu­dice della Corte dei conti, un alto diri­gente della Ragio­ne­ria dello Stato?

Non accadde già ai tempi del gene­rale Giu­dice o con lo scan­dalo delle banane del mini­stro Tra­buc­chi? Si assi­ste per­plessi alla marea pro­vando repul­sione, incre­du­lità, indi­gna­zione. Dopo­di­ché capita di chie­dersi per­ché. Per­ché, tra i paesi euro­pei «avan­zati», la corruzione abbia eletto domi­ci­lio pro­prio in Ita­lia. E per­ché con que­ste dimen­sioni, que­sta potenza, que­sta incoer­ci­bile forza di radi­ca­mento. La Corte dei conti parla di 60 miliardi l’anno, più o meno dieci volte il costo del mira­co­loso bonus Irpef. E que­sto ad appena vent’anni da Mani pulite, quando si pensò che la bufera avesse spaz­zato via, col per­so­nale poli­tico della «prima Repub­blica», un’intera genìa di mal­fat­tori. La quale invece non ha sol­tanto con­ti­nuato imper­ter­rita, ma ha evi­den­te­mente figliato, si è mol­ti­pli­cata e ha pure raf­fi­nato le pro­prie com­pe­tenze cri­mi­nose. Insomma per­ché in Ita­lia la corruzione è sistema? Al punto che il sistema sele­ziona i cor­rotti e discri­mina gli one­sti, met­ten­doli in con­di­zione di non nuo­cere con la pro­pria improv­vida, ana­cro­ni­stica, anti­si­ste­mica onestà?

C’è una prima ragione di lungo periodo. Che non è meno vera per non essere una sco­perta dell’ultim’ora. La cor­ru­zione è un reato con­tro la col­let­ti­vità, una ferita ai suoi beni mate­riali e imma­te­riali. Ma si dà il caso che la nostra sia da tempo imme­more – già dall’eclissi dell’Impero romano – una società pul­vi­sco­lare, di pri­vati e di par­ti­co­lari. Nella quale la pas­sione civile non ha messo radici, fatta ecce­zione per qual­che spa­ruta cer­chia intel­let­tuale. Si capi­sce che qui la corruzione sia tol­le­rata e per­sino ben vista, anche da chi ha sol­tanto da per­dere non potendo pra­ti­carla in prima per­sona né trarne bene­fici. Se per un verso (in pub­blico) si storce il naso, per l’altro (in pri­vato) si è pronti ad ammi­rare e magari, potendo, a emu­lare chi la fa franca e su que­sta ambi­gua virtù costrui­sce for­tune. Si fac­cia quindi atten­zione alla dia­let­tica del con­trollo, che quanto più è severo, tanto più gra­ti­fica chi rie­sca a vio­larlo. Con­trol­lare è indi­spen­sa­bile, ma non ci si illuda: non ci sarà con­trollo che tenga fin­ché somma virtù sarà la valen­tia del fili­bu­stiere. Ma pro­prio in una società sif­fatta la poli­tica è il cuore del pro­blema. Non per­ché sia neces­sa­ria­mente l’epicentro della corruzione, come si ama ripe­tere nei salotti buoni e nelle reda­zioni. Anche se non va di moda dirlo, la ccorruzione sgorga spesso dalla benea­mata società civile: per­vade i mondi dell’impresa, del cre­dito e dell’informazione, il pri­vato non meno che il pub­blico. Il cuore del pro­blema è la poli­tica per­ché, tale essendo il costume, dalla poli­tica sol­tanto – in pri­mis dal legi­sla­tore – può muo­vere il riscatto.

E per­ché quindi, dove invece la poli­tica non si distin­gue dal costume e quindi lo asse­conda, ne deriva ine­vi­ta­bile un disa­stro. Il rove­scia­mento dei valori ne trae vigore e i com­por­ta­menti anti-sociali, già legit­ti­mati dal sen­tire comune, ne risul­tano lega­liz­zati, di nome o di fatto. Anche da que­sto punto di vista la sto­ria ita­liana offre un qua­dro deso­lante. Si pensi ieri alla Banca Romana, ai governi della mala­vita, alla corruzione dila­gante nel regime fasci­sta, la cui denun­cia costò la vita a Mat­teotti. E si pensi, nella sto­ria della Repub­blica, alla folta teo­ria degli scan­dali demo­cri­stiani e socia­li­sti, con al cen­tro il sistema delle par­te­ci­pa­zioni sta­tali, le casse di rispar­mio, la manna dei lavori pub­blici. Ciò nono­stante, que­sta sto­ria non è la notte delle vac­che nere. In un pae­sag­gio pres­so­ché uni­forme c’è stata una felice ano­ma­lia. E un pur breve tempo – tra gli anni Ses­santa e Set­tanta del secolo scorso – in cui le cose par­vero andare altri­menti. Si può leg­gere la sto­ria del Pci, nei primi cinquant’anni della sua vita, come quella di una pre­ziosa dis­so­nanza: del vet­tore di un’etica civile laica e di una cul­tura poli­tica nuove, per molti versi estra­nee alle tra­di­zioni di que­sto paese. Per non dire al suo carat­tere nazio­nale. Gram­sci lo dice a chiare let­tere: il moderno prin­cipe è il cata­liz­za­tore di una «riforma intel­let­tuale e morale» per l’avvento di una demo­cra­zia inte­grale. E dav­vero, fino agli anni Set­tanta, i comu­ni­sti ita­liani per­lo­più lo furono, con­ce­pendo e pra­ti­cando la poli­tica come impe­gno volto a far pre­va­lere un’idea. Come una pro­fes­sione in senso webe­riano – un «saper fare» fatto di com­pe­tenza, disin­te­resse e senso di respon­sa­bi­lità – con­sa­crata alla tra­sfor­ma­zione della società. Poi, nel corso degli anni Set­tanta, le belle ban­diere furono ammainate.

In que­sti giorni ricor­diamo l’ultimo grande segre­ta­rio del Pci scom­parso trent’anni or sono. La figura umana e morale di Enrico Ber­lin­guer è nel cuore di noi tutti. Ma non si dice abba­stanza forte che durante una prima lunga fase della sua segre­te­ria il par­tito cam­biò volto. Si buro­cra­tizzò e divenne il par­tito degli ammi­ni­stra­tori, seco­la­riz­zan­dosi nel senso meno nobile del ter­mine. Rimango dell’idea che anche di que­sto, che per lui fu un dramma, Ber­lin­guer morì. Quando – avver­tita la neces­sità di alzare il tiro con­tro l’arroganza dei padroni e le discri­mi­na­zioni di genere, con­tro l’acquiescenza all’imperialismo ame­ri­cano e, appunto, il dila­gare della cor­ru­zione – sco­prì che la bat­ta­glia era da com­bat­tersi già den­tro il par­tito, e che nem­meno qui il buon esito era acqui­sito. Sta di fatto che, morto Ber­lin­guer, il Pci si nor­ma­lizza e, ancor prima di chiu­dere i bat­tenti, cessa di essere una con­trad­di­zione. Per que­sto non regge all’implosione della «prima Repub­blica» né, tanto meno, si mostra capace di gui­dare una rina­scita. Anzi viene tra­volto, senza un’apparente ragione. Lasciando che Ber­lu­sconi, cam­pione di mora­lità, si fac­cia, dopo Tan­gen­to­poli, inter­prete della nuova moder­nità ita­liota. Siamo così ai nostri giorni. Chi fa poli­tica oggi in Ita­lia? E per­ché e come? Nella migliore delle ipo­tesi – scon­tate le debite, inin­fluenti ecce­zioni – il poli­tico è un tec­nico senza visione. Più spesso, un addetto ai lavori che cono­sce soprat­tutto e ha a cuore la rete di rela­zioni che gli ha per­messo di acqui­sire posi­zioni e influenza. Un esperto nella pra­tica del potere che vive tut­ta­via senza patemi il depe­rire del ruolo a fun­zioni ese­cu­tive o esor­na­tive. Sin­daci, pre­si­denti di regione, asses­sori si bar­ca­me­nano nei vin­coli posti dall’esecutivo, le cui deci­sioni i par­la­men­tari rati­fi­cano. Capi di governo e mini­stri si atten­gono alle diret­tive euro­pee e dei mer­cati. Sullo sfondo, un sistema di par­titi che vivono per ripro­dursi senza nem­meno più ven­ti­lare l’ipotesi di sot­to­porre a cri­tica que­sto stato di cose e di modificarlo.

Que­sto signi­fica essere cor­rotti? In larga misura sì. E ad ogni modo si capi­sce che la corruzione si svi­luppa molto più facil­mente quando la fina­lità del fare poli­tica è fare poli­tica: restare nel giro, par­te­ci­pare ai riti del potere, riti­rare i divi­dendi dello sta­tus, uti­liz­zare le isti­tu­zioni per intrat­te­nere rap­porti utili con la società civile. La quale, dal canto suo, ha tutto l’interesse di tro­vare inter­lo­cu­tori isti­tu­zio­nali com­pren­sivi e dispo­ni­bili a esau­dire i suoi non sem­pre irre­pren­si­bili desi­de­rata. Se è così, non c’è da stu­pirsi che dopo Tan­gen­to­poli le cose non siano cam­biate affatto, se non in peg­gio. Né vi è ragione di con­fi­dare – reto­ri­che a parte – in un’autoriforma del sistema o in una spal­lata rige­ne­ra­trice. Non che le masse si iden­ti­fi­chino entu­sia­ste con il governo in carica, come pre­tende la fan­fara di gior­nali e tv. Il 25 mag­gio e ancora il 9 giu­gno hanno vinto sopra tutti la disaf­fe­zione, l’astensionismo, il vaffa stri­sciante. Ma con­trad­di­zioni serie attra­ver­sano il “popolo”. Il risen­ti­mento qua­lun­qui­stico del «così fan tutti» è spesso solo la maschera dell’assuefazione. Il “popolo” per un verso stig­ma­tizza que­sti com­por­ta­menti e invoca la gogna per i cor­rotti. Per l’altro, è incline a com­pren­dere e a giu­sti­fi­care. A con­ce­dere atte­nuanti alla pro­pria parte (sem­pre meno cor­rotta delle altre) e a taci­ta­mente invi­diare il cor­rotto baciato dal suc­cesso. Anche per que­sto il “popolo” rifugge come la peste il poli­tico uto­pi­sta e visio­na­rio, l’ideologo idea­li­sta, il cat­tivo mae­stro di un tempo che fu. Dio ci scampi. Meglio, molto meglio gli uomini del fare, pro­prio per­ché senza idee e un poco mascalzoni.

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