by redazione | 5 Giugno 2014 10:33
Era il 5 maggio del 2010 quando all’esterno dello Stadio Olimpico scoppiarono violenti incidenti al termine della finale di Coppa Italia tra Roma e Inter. All’epoca Stefano Gugliotta aveva 26 anni e, tirato giù dal suo motorino da un gruppo di agenti della celere nelle vicinanze dello stadio in viale Pinturucchio, fu colpito a ripetizione fino a perdere i sensi.
Poi venne arrestato per resistenza e passò una settimana in carcere. Gugliotta era completamente estraneo agli incidenti ed è stato fermato mentre andava ad una festa con un amico, colpevole solo di trovarsi al posto sbagliato nel momento sbagliato.
Dopo quattro anni è arrivata la sentenza di primo grado che riconosce come responsabili delle violenze nove agenti della celere che sono stati condannati a quattro anni di reclusione e sono stati sospesi dal servizio per aver preso l’inerme Gugliotta a calci, pugni, manganellate. I giudici della decima sezione del tribunale di Roma sono andati anche oltre le richieste del pm Pierluigi Cipolla. «Non si può mai essere contenti quando vengono condannate delle persone, specie se, come in questo caso, agenti di polizia – ha commentato Cesare Piraino, avvocato di Gugliotta – Se l’impostazione accusatoria era corretta, la pena da infliggere non poteva essere di modesta entità come richiesto dal pm». La verità è venuta fuori grazie alle riprese video fatte da un balcone e condivise in rete dove appariva, inequivocabile, la violenza e l’insensatezza del pestaggio. «È una sentenza pesante e credo giusta – ha commentato col manifesto Stefano Gugliotta –aspettiamo di leggere le motivazioni ma oggi è un bel giorno per me e per i miei familiari dopo quattro anni di battaglia in aula». «È importante che queste persone siano state riconosciute colpevoli per le loro azioni – prosegue Stefano – colpire con quella violenza e ferocia, in maniera casuale e insensata, è inconcepibile, soprattutto per chi porta una divisa e ha abusato del suo potere».
Gugliotta è un ragazzo normale trascinato in un incubo senza sapere perché. E’ consapevole che la battaglia è ancora lunga: «Questo è solo il primo grado di giudizio, ora affronteremo tutti gli altri con più forza. C’è poi un altro procedimento ancora in corso che vede imputati gli agenti che certificarono il mio arresto e le sue modalità». Chiediamo a Stefano se si è sentito solo in questa anni e la risposta è perentoria «no mai, io e la mia famiglia ci siamo sostenuti a vicenda e abbiamo incontrato la solidarietà e la vicinanza di tante persone».
Ieri in aula si trovavano i volontari di Acad (Associazione contro gli abusi in divisa), oltre a Lucia Uva e Claudia Budroni, parenti di persone morte durante interventi delle forze dell’ordine. Giuseppe Uva ha perso la vita il 14 giugno 2008 dopo essere stato trattenuto nella caserma dei carabinieri di Varese. Dino Budroni è deceduto il 30 luglio 2011 dopo essere stato colpito da un proiettile sparato da un poliziotto durante un inseguimento. «A me non è andata di certo bene, ma poteva andare peggio», afferma Gugliotta». Per Acad la sentenza di ieri «è importante sotto molti punti di vista; innanzitutto perché raramente si sente odore di giustizia nei processi che vedono sul banco degli imputati gli agenti dei reparti celere che anche in questo processo hanno provato in tutti i modi a demolire la verità, prima attaccando la credibilità di Stefano (raccontando di fantomatici precedenti penali) e successivamente a mischiare le carte con la solita scusa che con il casco e il manganello non ci può essere una identificazione certa».
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