Big data. Attenti alla Stasi 2.0. Ci spia su web
Una cifra immensa di zettabyte di dati, ovvero 1000 miliardi di gigabyte, trascorrono sul nostro pianeta trasportando e contenendo un numero smisurato di informazioni. Dati contenenti la volontà e il desiderio dell’essere umano nell’Era Digitale, che lo definiscono oppure lo trasformano in merce.
Si tratta del Big Data, grande potenzialità conoscitiva o perigliosa trappola numerica per l’umanità intera. Durante il lancio milanese di Watch Dogs, Dino Pedreschi, docente presso il dipartimento di informatica dell’Università di Pisa e ricercatore pioneristico dell’universo Big Data, ci ha risposto ad alcune domande sull’argomento.
Una questione fanta-filosofica, visto che la fantascienza, quando si parla di videogiochi, è una delle chiavi di lettura più appropriate. Osservando le immagini impressionanti delle scie di dati che scorrono sulle città e sul pianeta e a tutte le informazioni che contengono, mi viene da pensare che queste siano come flussi di atomi metafisici o la realizzazione numerica dell’anima.
La nostra ombra digitale intesa come anima, è una suggestione che colgo volentieri. Io sono convinto che il tema fondamentale che viviamo oggi, rispetto al Big Data e alle briciole digitali che noi lasciamo, è proprio «impadronircene». Dobbiamo pensare che la scia digitale che ognuno di noi si lascia dietro, in quel marasma di dati enorme anche a livello personale, racchiude molto di noi: i nostri desideri, le aspirazioni, i sentimenti, le idee, lo stile di vita, l’alimentazione, le tendenze sessuali. Tutto questo, di fatto, sta là dentro. E se noi avessimo la possibilità di appropriarcene, per leggerli, potremmo specchiarci in essi. «È l’immagine di me che lascio nel mondo virtuale, mi ci ritrovo? Sono io quello lì? Trovo qualcosa di sorprendente?»
Ecco, sarebbe un potente modo per riflettere su se stessi e sulla propria posizione nel mondo. E non capiremmo solo come siamo noi ma potremmo comprendere come sono gli altri e la nostra comunità e quali siano i profili che possono essere devianti o conformi rispetto alla nostra persona. Questa è molto più che fantascienza, è scienza e sociologia praticabile. Ma partendo da questa visione che mette l’individuo al centro, bisogna scardinare la tendenza odierna, ovvero quella di aggregare in pochi soggetti una grande quantità di dati che riguardano tante persone, quindi le grandi corporazione del Web come Google, Amazon, Facebook e Apple. Prendono informazioni su grandi comunità di utenti e poi creano un profilo ad uso esclusivo del marketing. Poi c’è chi come National Security Administration, operazione illegale, «colleziona» le vite degli altri, perché di questo si tratta: la Stasi 2.0 fatta su scala globale in nome della sicurezza nazionale. Questa è una deriva inaccettabile, quella a cui dobbiamo contrapporre una visione democratica del Big Data che avrebbe le potenzialità di cambiare il mondo, contribuendo a fare nascere soluzioni «glocal» ai problemi della comunità. Non è ipotizzabile nessun Deus ex Machina in grado di trasformare il mondo governandolo in maniera centralizzata e nessun Grande Fratello che ci comprerà il paradiso. Un Grande Fratello può portarci a Watch Dogs, a questo incubo distopico. Tutto questo si può solo evitare dando potere alle persone, alla auto-organizzazione dal basso.
Non c’è il rischio, come tanti Dorian Gray, di smarrirsi nella propria immagine digitale, di creare mostri specchiandosi in una realtà virtuale che invece di avvicinarci a noi stessi ci allontana…
Non dobbiamo avere paura della conoscenza. Analizzando il percorso dell’umanità vediamo come ogni volta abbiamo avuto paura di sapere qualcosa, abbiamo commesso errori enormi. Meglio sapere che ignorare le cose. È vero, il rischio a cui fai riferimento esiste, perché il punto fondamentale è come trasmettiamo la conoscenza e come la apprendiamo. Si tratta di una nuova epistemologia con cui fare i conti, che non mi spaventa. Non dobbiamo avere paura di specchiarci, non lo facciamo nella vita reale e perché dobbiamo farlo in quella virtuale, che dovrebbe essere un’esistenza più semplice. Tu dici che è un’«anima», lo è ma si tratta di un’anima relativa alle tracce che lasciamo nel nostro vissuto. Quindi non è un’anima trascendentale ma la conseguenza delle nostre azioni e di quelle di chi ci circonda.
Parlando di storia come ricostruzione e cronaca del passato, non credi che questo modo di leggere la realtà attraverso una mole immensa di dati, cambi in maniera drastica il ruolo dello storico e di come raccontare il passato e il presente?
Possiamo considerare la Big Data Analytics come archeologia del presente. Vuole dire scavare in quello che succede per comprendere i comportamenti collettivi. Il fatto di potere scavare nel passato prossimo non ci impedisce di fare lo stesso con quello remoto perché i dati che abbiamo accumulato riguardano decadi. Nei nostri progetti ad esempio, considerato che abbiamo a che fare con dati di movimento, di consumo delle Coop e di telefonia, ormai possiamo osservare una popolazione a livello collettivo, in modo anonimo, per anni. Questa è quindi una forma di storia. Non è detto che dobbiamo vivere solo del futile e del presente, anzi molti dei «pattern» che possiamo scoprire possiedono una loro validità generale; scopriamo qualcosa un anno o dieci anni fa e realizziamo che ci sono le stesse caratteristiche macroscopiche. Dopo di che ha una grande importanza trovare chiavi di lettura anche qualitative che ci fanno comprendere lo stato di salute di una società. Il Big Data ci permette di misurare la diversità, che è un carattere sociale dall’importanza enorme, perché la salute di una società è legata proprio alla diversità di comportamenti. Quando c’è conformità e pochi comportamenti stereotipati, la creatività, il benessere e la cultura decadono.
Osservando le immagini dei Big Data che hai mostrato vi si coglie una bellezza che è artistica, vedendo in questi flussi luminosi una rappresentazione della vita…
È forse la parte più bella e difficile del mestiere che cerchiamo di fare, perché in effetti ha molto in comune con la rappresentazione artistica, anche perché l’arte è una questione di scelte. La cosa più affascinante è che questi flussi di dati siamo noi. Ed è vero; se li dipaniamo lungo una carta geografica e temporale possiedono una inerente bellezza o armonia. Perché noi esprimiamo un’intelligenza collettiva che non è qualcosa di caotico e stocastico. Obbediamo a dei modelli, che sono probabilistici e non deterministici, che hanno una loro regolarità. Spesso come esseri umani, tendiamo a riconoscere la bellezza nella regolarità. Il motivo per cui dobbiamo impadronirci a livello individuale e collettivo, come bene comune, di questa immensa potenzialità che sono le nostre tracce digitali, ha anche un’importanza estetica e culturale da cui scaturisce una nuova bellezza nata dall’osservare la propria vita e quella degli altri da un nuovo punto di vista. È come quando negli anni sessanta si abbiamo osservato le prime immagini della Terra dallo spazio, fu un’emozione incredibile che ha cambiato la percezione di un’intera generazione. Oggi i Big Data sono la stessa cosa, sperando tuttavia che ne consegua una mutazione più democratica e umana del mondo.
Quanto ha indovinato P.K. Dick del presente?
Sia Dick che Sheckley hanno anticipato molto del mondo di oggi, ma si tratta di distopie che fortunatamente non si sono mai realizzate e forse, lo spero, non si realizzeranno mai. Le invenzioni più oscure di Dick oppure la Decima Vittima di Sheckley non sono ancora realtà presenti ma restano incubi. Il videogioco Watch Dogs è proprio la realizzazione di un incubo, ovvero l’hackeraggio delle nostre vite esercitato da un sistema che ti vuole controllare e da un disperato che hackera l’esistenza altrui per sopravvivere.
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