La balcanizzazione dell’ Iraq

by redazione | 17 Giugno 2014 12:40

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Se fosse vero quanto stanno rac­con­tando a Washing­ton, che gli Stati uniti sono stati colti di sor­presa dall’offensiva ira­chena dei jiha­di­sti dello Stato isla­mico dell’Iraq e del Levante (Isis), il pre­si­dente Barack Obama dovrebbe desti­tuire imme­dia­ta­mente i ver­tici della Comu­nità di intel­li­gence, for­mata dalla Cia e da molte altre agen­zie fede­rali che spiano e con­du­cono ope­ra­zioni ame­ri­cane segrete su scala glo­bale.
Sicu­ra­mente essi sono stati invece lodati, in pri­vato, dal pre­si­dente. L’Isis è infatti fun­zio­nale alla stra­te­gia sta­tu­ni­tense di demo­li­zione degli stati attra­verso la guerra coperta.

Diversi suoi capi pro­ven­gono dalle for­ma­zioni isla­mi­che libi­che che, prima clas­si­fi­cate come ter­ro­ri­ste, sono state armate, adde­strate e finan­ziate dai ser­vizi segreti sta­tu­ni­tensi per rove­sciare Ghed­dafi.
Lo con­ferma l’Isis stesso, com­me­mo­rando due suoi coman­danti libici: Abu Abdul­lah al Libi, che ha com­bat­tuto in Libia prima di essere ucciso da un gruppo rivale in Siria il 22 set­tem­bre 2013; Abu Dajana che, dopo aver com­bat­tutto anche lui in Libia, è stato ucciso l’8 feb­braio 2014 in Siria in uno scon­tro con un gruppo di Al Qaeda, prima suo alleato. Quando è ini­ziata la guerra coperta per abbat­tere il pre­si­dente Assad, molti mili­tanti sono pas­sati dalla Libia alla Siria, unen­dosi a quelli, in mag­gio­ranza non-siriani, pro­ve­nienti da Afgha­ni­stan, Bosnia, Cece­nia e altri paesi. L’Isis ha costruito gran parte della sua forza pro­prio in Siria, dove i «ribelli», infil­trati da Tur­chia e Gior­da­nia, sono stati rifor­niti di armi, pro­ve­nienti anche dalla Croa­zia, attra­verso una rete orga­niz­zata dalla Cia (la cui esi­stenza è stata docu­men­tata anche da un’inchiesta del New York Times il 26 marzo 2013).

È pos­si­bile che la Cia e le altre agen­zie sta­tu­ni­tensi – dotate di una fitta rete di spie, di effi­cienti droni e satel­liti mili­tari – fos­sero all’oscuro che l’Isis pre­pa­rava una mas­sic­cia offen­siva con­tro Bagh­dad, pre­an­nun­ciata da una serie di atten­tati? Evi­den­te­mente no. Per­ché allora Washing­ton non ha lan­ciato l’allarme prima che essa ini­ziasse? Per­ché il suo obiet­tivo stra­te­gico non è la difesa, ma il con­trollo dello stato iracheno.

Dopo aver speso nella seconda guerra in Iraq oltre 800 miliardi di dol­lari per le ope­ra­zioni mili­tari, che sal­gono a 3mila miliardi con­si­de­rando tutti i costi com­presi quelli sani­tari, gli Stati uniti vedono ora la Cina sem­pre più pre­sente in Iraq: essa com­pra circa la metà della sua pro­du­zione petro­li­fera, for­te­mente aumen­tata, ed effet­tua grossi inve­sti­menti nella sua indu­stria estrat­tiva. Non solo. In feb­braio, durante la visita del mini­stro degli esteri Wang Yi a Bagh­dad, i due governi hanno fir­mato accordi che pre­ve­dono anche for­ni­ture mili­tari da parte della Cina.

In mag­gio il pre­mier ira­cheno Nouri al-Maliki ha par­te­ci­pato, a Shan­ghai, alla Con­fe­renza sulle misure di inte­ra­zione e raf­for­za­mento della fidu­cia in Asia, insieme a Has­san Rou­hani, pre­si­dente dell’Iran. Paese con cui il governo al-Maliki ha fir­mato lo scorso novem­bre un accordo che, sfi­dando l’embargo voluto da Washing­ton, pre­vede l’acquisto di armi ira­niane per l’ammontare di 195 milioni di dol­lari. Su que­sto sfondo si col­loca l’offensiva dell’Isis, che incen­dia l’ Iraq tro­vando mate­ria infiam­ma­bile nella riva­lità sunniti-sciiti acuita dalla poli­tica di al-Maliki.

Ciò per­mette agli Stati uniti di rilan­ciare la loro stra­te­gia per il con­trollo dell’ Iraq. In tale qua­dro non va perso di vista il piano, fatto pas­sare al Senato nel 2007 dall’attuale vice­pre­si­dente Joe Biden, che pre­vede «il decen­tra­mento dell’ Iraq in tre regioni semi-autonome: curda, sun­nita e sciita», con un «limi­tato governo cen­trale a Baghdad».

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