Workfare L’Inghilterra torna al lavoro coatto

by redazione | 1 Maggio 2014 10:07

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Da lunedì scorso i disoc­cu­pati bri­tan­nici di lungo corso (200.000 per­sone, si stima) sono stati costretti a un salto indie­tro di quasi due secoli. Per con­ti­nuare a per­ce­pire il sus­si­dio di circa 90 euro alla set­ti­mana che viene loro rico­no­sciuto dovranno sot­to­met­tersi a una delle seguenti alter­na­tive: ese­guire lavori social­mente utili, seguire un corso di for­ma­zione o recarsi quo­ti­dia­na­mente al Cen­tro per l’impiego come puro e sem­plice atto di devo­zione. Si tratta, né più né meno, di lavoro for­zato, per nulla dis­si­mile quanto ai prin­cipi che lo ispi­rano, da quella famosa legge sui poveri del 1834 che, proi­bendo ogni altra forma di assi­stenza, impo­nenva di rin­chiu­dere i disoc­cu­pati all’interno di opi­fici così stret­ta­mente disci­pli­nati e austeri da ren­dere per nulla invi­dia­bile il destino di chi vi fosse stato con­fi­nato. E dove l’unica garan­zia sta­bi­lita dalla legge era il diritto di non esser lasciati morire di fame. Lo scopo, oltre a quello del con­trollo sociale diretto sulle fasce più povere della popo­la­zione, con­si­steva nello spin­gere gli ope­rai ad accet­tare anche le più sfa­vo­re­voli con­di­zioni di lavoro pur di non pre­ci­pi­tare in una così spa­ven­tosa con­di­zione. Lo stesso risul­tato che anche oggi, pur pas­sando dalle costose fabbriche-carcere a più fles­si­bili stru­menti di ves­sa­zione, si vuole otte­nere: ren­dere i disoc­cu­pati (e indi­ret­ta­mente anche gli occu­pati dall’incerto destino) sem­pre meno «schiz­zi­nosi», per dirla con il ter­mine usato da un nostro exministro.

Fatto sta che nel 1834 il Regno unito si tro­vava nel pieno di un pode­roso pro­cesso di indu­stria­liz­za­zione e già da più di un secolo si trat­tava di pie­gare una intera popo­la­zione riot­tosa alla disci­plina mani­fat­tu­riera. L’ideologia ade­riva bene o male alla mate­ria­lità delle cir­co­stanze. Il work­fare con­tem­po­ra­neo, al con­tra­rio, non cor­ri­sponde ad alcuna realtà con­creta. Nel mondo dell’automazione e della digi­ta­liz­za­zione dispie­gate nes­suna ripresa pro­dut­tiva potrà mai rias­sor­bire le schiere sem­pre più folte degli inoc­cu­pati e solo una fra­zione tra­scu­ra­bile della povertà attuale può essere anche vaga­mente para­go­nata all’indigenza inte­ra­mente impro­dut­tiva del pas­sato. Gran parte dei disoc­cu­pati si dedi­cano, infatti, ad atti­vità che, pur non rico­no­sciute come lavoro, con­tri­bui­scono in misura per nulla tra­scu­ra­bile alla vita sociale e cul­tu­rale. Que­ste atti­vità hanno, tut­ta­via, un grave difetto agli occhi dei legi­sla­tori bri­tan­nici: sono libe­ra­mente scelte e non ono­rano le leggi del mer­cato. Vanno dun­que sosti­tuite, nella migliore tra­di­zione statualistico-autoritaria, con il lavoro coatto, del tutto indi­pen­den­te­mente dalla sua uti­lità reale: lavoro fit­ti­zio, o lavoro gra­tuito desti­nato a sfol­tire o quan­to­meno a ricat­tare le schiere degli occu­pati. Altret­tanto fit­tizi e orien­tati a sboc­chi imma­gi­nari sono il più delle volte i corsi di for­ma­zione pro­get­tati dalle buro­cra­zie pub­bli­che. Quanto alla terza alter­na­tiva, è quella che più smac­ca­ta­mente rivela i suoi carat­teri squi­si­ta­mente ideo­lo­gici e disci­pli­nari: si tratta di pura e sem­plice espia­zione quo­ti­diana al cospetto di un anno­iato ope­ra­tore assistenziale.

Il secondo obiet­tivo delle misure ves­sa­to­rie con­te­nute nella nuova nor­ma­tiva bri­tan­nica (bef­far­da­mente deno­mi­nata Help to work) è la ridu­zione della spesa sociale. Sot­to­po­nendo a con­di­zioni umi­lianti l’accesso ai bene­fici assi­sten­ziali si sup­pone di riu­scire a sco­rag­giare i più dal doman­darli. Fatto sta che la fin­zione del lavoro, o quella della for­ma­zione, sono ben più one­rose della con­ces­sione di un sus­si­dio o di un red­dito uni­ver­sale senza con­tro­par­tite. Com­por­tano con­sumi di mate­riali e di ener­gia, non­ché ple­to­rici appa­rati di con­trollo. Ragion per cui diversi eco­no­mi­sti si sono espressi con­tro que­sto pro­gramma che, oltre alle scarse pos­si­bi­lità di ricon­durre un numero signi­fi­ca­tivo di inoc­cu­pati nel mondo del lavoro, non com­por­te­rebbe nean­che alcun rispar­mio. Ma il work­fare non risponde ad alcuna razio­na­lità eco­no­mica, il suo signi­fi­cato, ideo­lo­gico e poli­tico, con­si­ste esclu­si­va­mente nel riba­dire la rigi­dità delle gerar­chie sociali e l’accentramento in poche mani del potere di modu­lare a pro­prio pia­ci­mento i flussi della redi­stri­bu­zione, per poter­sene ser­vire a fini di ricatto.

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