Workfare L’Inghilterra torna al lavoro coatto
Da lunedì scorso i disoccupati britannici di lungo corso (200.000 persone, si stima) sono stati costretti a un salto indietro di quasi due secoli. Per continuare a percepire il sussidio di circa 90 euro alla settimana che viene loro riconosciuto dovranno sottomettersi a una delle seguenti alternative: eseguire lavori socialmente utili, seguire un corso di formazione o recarsi quotidianamente al Centro per l’impiego come puro e semplice atto di devozione. Si tratta, né più né meno, di lavoro forzato, per nulla dissimile quanto ai principi che lo ispirano, da quella famosa legge sui poveri del 1834 che, proibendo ogni altra forma di assistenza, imponenva di rinchiudere i disoccupati all’interno di opifici così strettamente disciplinati e austeri da rendere per nulla invidiabile il destino di chi vi fosse stato confinato. E dove l’unica garanzia stabilita dalla legge era il diritto di non esser lasciati morire di fame. Lo scopo, oltre a quello del controllo sociale diretto sulle fasce più povere della popolazione, consisteva nello spingere gli operai ad accettare anche le più sfavorevoli condizioni di lavoro pur di non precipitare in una così spaventosa condizione. Lo stesso risultato che anche oggi, pur passando dalle costose fabbriche-carcere a più flessibili strumenti di vessazione, si vuole ottenere: rendere i disoccupati (e indirettamente anche gli occupati dall’incerto destino) sempre meno «schizzinosi», per dirla con il termine usato da un nostro exministro.
Fatto sta che nel 1834 il Regno unito si trovava nel pieno di un poderoso processo di industrializzazione e già da più di un secolo si trattava di piegare una intera popolazione riottosa alla disciplina manifatturiera. L’ideologia aderiva bene o male alla materialità delle circostanze. Il workfare contemporaneo, al contrario, non corrisponde ad alcuna realtà concreta. Nel mondo dell’automazione e della digitalizzazione dispiegate nessuna ripresa produttiva potrà mai riassorbire le schiere sempre più folte degli inoccupati e solo una frazione trascurabile della povertà attuale può essere anche vagamente paragonata all’indigenza interamente improduttiva del passato. Gran parte dei disoccupati si dedicano, infatti, ad attività che, pur non riconosciute come lavoro, contribuiscono in misura per nulla trascurabile alla vita sociale e culturale. Queste attività hanno, tuttavia, un grave difetto agli occhi dei legislatori britannici: sono liberamente scelte e non onorano le leggi del mercato. Vanno dunque sostituite, nella migliore tradizione statualistico-autoritaria, con il lavoro coatto, del tutto indipendentemente dalla sua utilità reale: lavoro fittizio, o lavoro gratuito destinato a sfoltire o quantomeno a ricattare le schiere degli occupati. Altrettanto fittizi e orientati a sbocchi immaginari sono il più delle volte i corsi di formazione progettati dalle burocrazie pubbliche. Quanto alla terza alternativa, è quella che più smaccatamente rivela i suoi caratteri squisitamente ideologici e disciplinari: si tratta di pura e semplice espiazione quotidiana al cospetto di un annoiato operatore assistenziale.
Il secondo obiettivo delle misure vessatorie contenute nella nuova normativa britannica (beffardamente denominata Help to work) è la riduzione della spesa sociale. Sottoponendo a condizioni umilianti l’accesso ai benefici assistenziali si suppone di riuscire a scoraggiare i più dal domandarli. Fatto sta che la finzione del lavoro, o quella della formazione, sono ben più onerose della concessione di un sussidio o di un reddito universale senza contropartite. Comportano consumi di materiali e di energia, nonché pletorici apparati di controllo. Ragion per cui diversi economisti si sono espressi contro questo programma che, oltre alle scarse possibilità di ricondurre un numero significativo di inoccupati nel mondo del lavoro, non comporterebbe neanche alcun risparmio. Ma il workfare non risponde ad alcuna razionalità economica, il suo significato, ideologico e politico, consiste esclusivamente nel ribadire la rigidità delle gerarchie sociali e l’accentramento in poche mani del potere di modulare a proprio piacimento i flussi della redistribuzione, per potersene servire a fini di ricatto.
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