La vita del tempo perso nel carcere di Fermo
Quando suono ai citofoni, subito dopo si apre la porta scorrevole metallica. Cerco la guardia, non vedo il suo viso nel vetro a specchio, ma con sorpresa solo il mio, speculare, che mi guarda. Poi la voce mi chiede il documento, lo infilo subito in un piccolo vano che sta sotto il vetro, vedo la mano prensile che lo afferra, veloce lo fa sparire.
Ho sempre pensato con angoscia al carcere, quando passavo qui davanti da ragazzino, mentre costeggiavo a piedi il vecchio edificio della casa circondariale di Fermo, e vedevo in cima a un muro alto i vetri rotti conficcati nel cemento, pensavo chissà perché all’onomatopea raffinata di una poesia di Montale: «com’è tutta la vita e il suo travaglio/in questo seguitare una muraglia che ha in cima cocci aguzzi di bottiglia». Da ragazzino tifavo sempre per i ladri evasi, mai per i poliziotti, gli indiani contro le giubbe blu, nei film come nella realtà, e speravo potessero riconquistare la libertà alla fine di quelle pellicole. Da ragazzo ho capito presto che la legge non è uguale per tutti, molti detenuti fanno parte delle classi più basse, delinquono spesso per necessità, poi molte volte diventano degli incalliti perché nel mondo fuori spesso si ripropone il problema che li ha portati in galera. I delinquenti veri, i bancarottieri, i mandanti morali, quelli delle classi agiate, vengono affidati ai servizi sociali, come accadde al capo dei democristiani Forlani, e adesso a Berlusconi, per tutti gli altri si applica rigidamente il diritto, specie in uno dei paesi più corrotti del mondo come il nostro, al 68° posto per la precisione nella classifica mondiale, preceduto persino da Macedonia e Montenegro, solo un gradino sopra il Kuwait e la Romania.
Quando la guardia seriosa mi fa entrare, aprendo una seconda porta metallica, il senso d’angoscia cresce. Il tipo in divisa avverte qualcuno al telefono, poi mi accompagna nello studio dell’educatore, un coetaneo corpulento dalla faccia larga e i capelli biondastri che ho visto sempre vestito elegante con le sue giacche di tweed e il fazzoletto nel taschino, l’aria un po’ dandy. Quando arriva Angelica, la cronista del Resto del Carlino che ormai da qualche anno fa un periodico insieme ai detenuti, La chiave news, la quale mi ha già invitato a parlare con i membri della redazione, siamo al completo. Ci dirigiamo tutti e tre verso una grande porta, sempre metallica, il secondino ci apre. Varcata la soglia, il militare adesso ci saluta, siamo già nel cuore di questo piccolo carcere. Scorgo le celle anguste nei due lati e gli uomini che stanno dietro le sbarre, le facce annoiate, alcuni altri, al piano superiore, appoggiati alle balaustre di una balconata circolare che guardano il nostro passaggio, spiandoci. Siamo nella cattedrale del tempo perso, nel mausoleo della noia, il posto dove nella tua vita finisce l’intimità, spesso inizia la depressione, la violenza psicologica, la malattia. Un luogo molto adatto alla letteratura. Anzi, direi perfetto. Perché qui c’è tutto un concentrato di avventure, storie, trame di vite complesse. Oltre questo cortile interno, dove i detenuti sono costretti a passare l’ora d’aria, in quanto il carcere è piccolo, non è possibile passeggiare fuori, a metà di questo stanzone c’è l’ingresso di quella che chiamano la biblioteca, un’auletta soppalcata con sotto i pochi metri quadri per una scrivania e una quindicina di sedie, e sopra i pochi scaffali con i libri. Quando entro, seguendo l’educatore e la giovane giornalista, la dozzina di uomini sono già seduti al loro posto e si alzano in piedi di scatto salutando. Sono per metà italiani e per metà stranieri: in questa stanzetta ci sono diverse etnie che fanno una piccola Babele: vengono dal Marocco, dalla Libia, dalla Romania, dall’Albania. Sono qui per la «Settimana della cultura in carcere», una iniziativa del Ministero di grazia e giustizia.
Quando li vedo tutti insieme che mi guardano, e penso al titolo della mia lezione, «Il reportage narrativo», in realtà vorrei solo ascoltare queste persone che, una alla volta, si alzano per raccontare la loro storia fatta di umanità e di dolore, di resurrezioni e cadute agli inferi. Chi più di loro ha bisogno di raccontare, ricostruire il racconto giusto della propria vita, quella «autofction» che adesso va tanto di moda, per fare un bilancio? Questo sto pensando mentre mi guardano curiosi, in particolare un ragazzo rumeno biondissimo, dagli occhi azzurri e lo sguardo intensissimo, che sta in seconda fila.
Debbo parlare di come sono importanti la lettura e la scrittura nei luoghi di detenzione, questo è il mandato, il motivo per il quale ho accettato l’invito, invece comincio dicendo che ho scelto di venire qui perché conosco la situazione difficile del mondo delle carceri: il sovraffollamento, la scarsa qualità dell’assistenza sanitaria, la mancanza di psicologi, le croniche carenze di personale. C’è un problema di civiltà, e gli scrittori lo sanno, vogliono raccontarlo. Poi comincio a parlare del mio lavoro, dei libri che ho scritto. Che non sono libri d’invenzione, di fiction, ma storie dal vero. Una specie di ibrido tra racconto, giornalismo e storia. Uno l’ho portato con me, da donare alla biblioteca del carcere. Le nostre vite sono diametralmente opposte: le loro ferme qui, dentro se stesse, la mia fuori e sempre in viaggio per raccontare quelle degli altri. Però la scrittura deve avere sempre una urgenza, formale e morale, altrimenti diventa uno sterile esercizio estetico, o una attività funzionale e commerciale, tutte cose che non mi interessano. Esiste anche una letteratura sociale, che racconta le realtà del mondo, e un’altra scrittura, sempre sociale, che serve per raccontarsi, uscire fuori almeno da sé prima che da questo mondo chiuso, diventare memoriale.
Quando i detenuti cominciano a parlare, i primi che si fanno avanti sono quelli che la scrittura l’hanno utilizzata perché era una necessità: raccontarsi. L’unico marchigiano, che credo abbia avuto problemi di tossicodipendenza, i capelli raccolti in un codino, occhiali neri da vista dalla montatura nera e massiccia, i modi da ragazzo buono, quello che ho proprio davanti a me, racconta che quando entri in carcere la prima cosa che perdi, dopo la libertà, naturalmente, è proprio l’intimità e il pudore, diventi un uomo completamente trasparente. «A San Vittore avevo iniziato a tenere un diario dove annotavo tutta la mia storia, ma non avevamo neanche la carta, scrivevo dietro le pagine dei mesi di un calendario.” La necessità lo aveva spinto a scrivere persino nei pochi spazi bianchi dei libri che leggeva. Poi era riuscito a procurarsi quello che teneramente chiama «un quadernino», era il suo momento di gloria quando riusciva a mettere in santa pace una parola dietro l’altra. Aveva cominciato dopo aver letto «Nulla succede per caso» di Robert H. Hopcke, dice ancora. «Ma sai, come si fa a concentrarsi? Nella cella eravamo in cinque, non si riusciva a muoversi neanche due alla volta per quanto era stretta, e poi c’era chi voleva ascoltare la musica, o parlava a voce alta. Chi ti guardava storto perché lo facevi».
Mi fa capire che la violenza gratuita era sempre in agguato in certi penitenziari affollati, molti erano sempre coi nervi a fior di pelle. Il tipo napoletano che gli sta vicino, aria da veterano, gli fa quasi per contraddirlo: «la cella perfetta non esiste». Lui dice che qui a Fermo infatti si trova molto meglio, «a Camerino eravamo in dodici», molti altri annuiscono o gli danno ragione. Subito dopo prende la parola un uomo alto e robusto, il viso pulito, lamenta che qui comunque non c’è uno spazio per scrivere in pace: «a Pesaro c’era la biblioteca, chi voleva andare a leggere o a scrivere poteva. Li ho cominciato la mia storia». Poi racconta un aneddoto, quando sua moglie ha letto l’autobiografia e ha scoperto che l’aveva tradita, l’ha lasciato immediatamente. Ridiamo tutti. E per togliersi dall’imbarazzo di quella confessione, mi chiede subito dopo: «Conosci Gilberto Popolo?». Dico di no. Lui risponde: «ha scritto un libro, “Una strana storia”, ha vinto un sacco di premi».
Anche Genet, gli dico, era diventato scrittore in carcere. Lo conoscete? L’educatore spiega calmo che sulla Biblioteca ci stanno lavorando, «c’è un progetto con la Regione Marche, perché è giusto che un detenuto possa venire qui, toccare il libro, sceglierlo leggendo il risvolto, guardando la copertina, ma è complicato, la burocrazia non aiuta». Nel carcere c’è anche una scuola, una volta gli studenti erano una quindicina su sessanta ospiti, «adesso sono rimasti in due», lamenta, invitando i detenuti ad iscriversi. Per ultimo prende la parola un uomo libico, parla benissimo italiano e dice che è la prima volta nella vita che finisce dentro. «Avrei molte cose da dire, ma a chi le dico? Tante cose da dire della mia vita, come è fatta la mia giornata, quello che mi passa per la testa». Poi chiede all’educatore: «quando torna questo signore?».
Gli stringo forte la mano, dicendogli con calore, «molto presto». Lui continua a parlare serio ad argomentare, mi segue mentre mi sposto per uscire, e mentre parla ancora capisco che raccontare qui ha un valore diverso, è un bisogno primario, tiene in vita come l’aria che respiri. Prendendo la parola già esisti un po’ più di prima.
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