«Ho visto il gas, ero sicuro di morire» Il minatore turco racconta la strage

«Ho visto il gas, ero sicuro di morire» Il minatore turco racconta la strage

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SOMA (Turchia) — Quando si sale su per la collina che porta alla miniera i prati verdi e gli ulivi cedono improvvisamente il passo a delle distese di terra e sassi. Qui le montagne sono nude, scavate impietosamente dall’uomo. All’ingresso della cava i soccorritori si aggirano sfaccendati. Da uno dei cunicoli esce fumo. Non si può entrare. La folla aspetta. Assiepata sui prati circostanti. Un insieme variegato di curiosi, giornalisti e parenti. Le donne hanno tutte il turban colorato legato sotto il mento, se chiedi loro qualcosa girano gli occhi dall’altra parte. Tutti sanno che ormai i dispersi sono morti asfissiati dal monossido di carbonio. Persino i 14 minatori che avevano trovato rifugio nell’unica «camera sicura» della miniera non ce l’hanno fatta. Li hanno trovati distesi gli uni sugli altri come in un ultimo abbraccio.
Hasbi Demir ha visto la morte in faccia e forse per questo ora non fa che sorridere. Trentuno anni, camicia a righe e un paio di jeans, racconta l’inferno senza emozione. «Per nove ore sono rimasto sottoterra. Ero sicuro che non sarei mai più uscito. Non capivo cosa stesse succedendo. Abbiamo visto il gas arrivare e siamo scappati in un cunicolo ma il fumo si espandeva. A un certo punto uno dei capi ci ha detto di stare fermi che sarebbero giunti i soccorsi. Alcuni non lo hanno ascoltato e se ne sono andati. Non li ho mai più rivisti». Hasbi ha passato un giorno in ospedale, poi è andato a casa, si è cambiato ed tornato qui davanti alla miniera: «Voglio aspettare che li tirino fuori tutti. Non credo che tornerò mai più lì dentro. Non si può lavorare così». Che ci fossero dei pericoli l’avevano capito tutti. I piccoli incidenti erano all’ordine del giorno. Soprattutto dopo le privatizzazioni. «Prima le cose andavano meglio, oggi ci dobbiamo portare anche il cibo e quando salutiamo le nostre mogli non sappiamo mai se le rivedremo. Il tutto per 1500 lire turche al mese (500 euro ndr)».
Arrivano i politici e dispensano abbracci. L’ex leader del Chp Deniz Baykal, che fu costretto a dimettersi dopo uno scandalo sessuale montato ad arte dall’Akp, si fa le foto di gruppo. La folla borbotta, non approva. «Ma perché non se ne stanno a casa — mormora Ali, anche lui minatore —. Così distraggono i soccorritori”». Suayip vorrebbe vedere arrivare i politici europei da David Cameron a Angela Merkel: «Che vengano qui, a controllare le misure di sicurezza». Invece arriva il presidente Abdullah Gül accolto freddamente ma non con la stessa ostilità riservata il giorno prima al premier Recep Tayyip Erdogan.
Ieri il leader dell’Akp è stato messo di nuovo in difficoltà da due video. Il primo ritrae un suo consigliere Yusuf Yerkel, in elegante gessato, camicia bianca e cravatta grigia, mentre prende a calci per strada un contestatore, tenuto a terra da due soldati. L’altro mostra Erdogan arrabbiato e sul punto di aggredire un ragazzo che lo accusa di aver ucciso il padre. Le immagini del filmato, però, sono confuse.
A Soma, intanto, si contano i morti. Ieri il bilancio era arrivato a 282 vittime. Ma nella notte i soccorritori avrebbero ripreso le attività e rinvenuto altri tre cadaveri. Alla fine del paese, una distesa di case popolari squadrate e tristi, c’è il cimitero. I funerali si celebrano senza sosta. Le fosse sono scavate nella terra, una dietro l’altra per mancanza di spazio e di tempo. Ma ogni tomba ha una sua personalità. Su una c’è una sciarpa del Besiktas, una delle squadre più amate di Istanbul, su un’altra un orsacchiotto, su una terza una lettera. Intorno uomini, donne e bambini pregano e cantano. Se davanti alla miniera si piange nel resto del Paese la protesta non si placa. Gli scontri più duri si sono verificati ieri a Smirne, considerata una roccaforte dell’opposizione. La polizia ha usato lacrimogeni e idranti contro ventimila manifestanti scesi in piazza per lo sciopero generale proclamato dai sindacati. Tra i feriti c’è anche uno dei loro leader: Kani Beko, segretario generale del Disk.
Monica Ricci Sargentini


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