by redazione | 22 Maggio 2014 8:57
PIÙ appare inarrestabile la decadenza del ruolo politico e del peso economico dell’Europa nel mondo fattosi Globo ( The Globe è il simbolo, consacrato all’esposizione universale di Parigi del 1889), più sembra crescere il desiderio di definirne la figura, di disegnarne l’identità, di stabilirne l’idea. Ma quanto esso si fonda su una reale conoscenza della storia europea? Quanto esso corrisponde al “dèmone” che ne presiede le continue metamorfosi? E di che natura sono i progetti e i programmi che da esso possono prendere vita?
Infermissima, insecura è l’idea di uno spazio culturale europeo fin dal suo primo manifestarsi. Europa non ha mai indicato un luogo in contrapposizione ad altri, tantomeno un “centro sacrale”, come molti un tempo hanno preteso, ma un’energia irradiante in ogni direzione, una radicale insofferenza per ogni confine che non significasse somica.
glia da trasgredire. Qui mai il dio Termine ha trovato dimora. Questa energia ha assunto due volti, che nella loro inseparabilità hanno costituito la tragica grandezza d’Europa: un’inquietudine interiore, da cui nasce la “invenzione” di un movimento storico, che tutto relativizza e, alla fine, travolge; l’impossibilità di “lasciare in pace”, il non poter fare a meno di trascinare nel vortice di quel movimento ogni altra cultura, magari soltanto con la volontà di “scoprirla”. Fame di conoscenza e fame di conquista sono categorie rigorosamente scisse solo nella fantasia delle anime belle.
La “detronizzazione” d’Europa, seguita inesorabilmente alle guerre mondiali che essa ha scatenato, ha posto fine a ogni sua possibile “missione”? Il suicidio delle sue volontà egemoniche deve comportare l’impotenza a deciderne qualsiasi “compito”? È chiaro che a queste domande non si risponde con i “programmi” per il rafforzamento (o il salvataggio) della sua unità economica.
Ben prima infatti che quel suicidio si compisse, i grandi “profeti” dell’età che viviamo, da Tocqueville a Marx a Nietzsche, avevano compreso la necessità che il processo di unificazione economica venisse intrapreso. Gli staterelli europei (diceva Nietzsche nel 1885!) saranno costretti sotto la spinta dei commerci mondiali a stringersi insieme in un’unica potenza. Il solo denaro li obbligherà a questo tentativo, per l’impossibilità evidente di competere nell’economia globale da parte di qualsiasi antico ”staterello sovrano”. Riconoscere ciò che è necessario fare per sopravvivere è certo buon segno di volontà di vita, ma non indica di per sé alcuna “missione”, non può assumere alcun significato per il destino degli altri spazi dell’unico Globo.
Altrettanto evidente è, però, che nessun compito futuro può essere “inventato”, che qualsiasi “progetto” dovrà rivivere in sé fattori essenziali del passato e la sua lingua sapersi esprimere nei linguaggi in cui storicamente l’Europa si è rappresentata, non nell’universale esperanto tecnico- formale che appartiene al “solo denaro”, per trasformarli, magari, proprio parlandoli.
Ora, l’Europa insecura, operante proprio sempre in forza di tale insecuritas , questa Europa, che mai è sembrata avere sede certa, attorno a un linguaggio si è tuttavia costruita o, meglio, a un suo “originario fenomeno”. Possiamo chiamarlo “filosofia”. Non si tratta di contenuti determinati, tantomeno di astratti sistemi, ma di un atteggiamento complessivo che informa di sé tutta la nostra immagine del mondo, che determina una idea di vita: la possibilità che, al limite , essa possa essere condotta sulla base di norme razionali; che, proprio a tal fine, cultura e scienza debbano poter procedere autonomamente, ovverosia incondizionatamente, per potersi così esprimere in tutta la loro intrinseca potenza; che la libertà che in questa attività si incarna sia possesso del soggetto che opera, e che operando fa la propria storia, di noi, i Soggetti. Si potrebbe dimostrare come questa prospettiva si sia intrecciata con tutte le dimensioni dell’esperienza europea, ma la questione che urge non è storiografica. Può l’Europa avere altro compito che quello che il suo dèmone filosofico gli ha dettato? Programmi, certo, ne potrà elaborare comunque, come qualsiasi grande spazio del Globo, per salvaguardare la propria “competitività”. Ma una “identità” diversa da quella che nel linguaggio della filosofia si è tracciata, dove potrebbe mai immaginarla? Poiché questo appunto è il problema: che quel linguaggio è apparso compiuto (e, per tanti versi, vittoriosamente compiuto) nel corso del tragico “secolo breve”, che esso, proprio con la “occidentalizzazione” dell’intero pianeta, sembra giunto al suo estremo. Che rimane all’Europa da fare dopo aver compreso ogni alterità nella forma trascendentale del Cogito e svelato ogni “ideale” o “valore” come proprie creazioni, che di volta in volta storicamente si realizzano? Forse nient’altro che la critica de-costruttiva, la messa in dubbio radicale della fondatezza di quell’eroica istanza. Può il compito attuale d’Europa consistere nell’esercizio ironico- scettico rispetto ad ogni pretesa di riduzione del mondo a “sistema”? Un gesto di rinuncia ne caratterizzerebbe, allora, l’idea. Rinuncia a ogni volontà di possesso e afferramento del reale sul metro della propria storia, rinuncia a ogni forma di teleologia. Rinuncia che non significhi pessimistico abbandono, ma capacità di accogliere in sé, attenzione e ascolto rivolti all’infinita differenza che ci separa dal prossimo, e insieme a lui ci accorda. Il tramonto destinato della potenza europea può trasformarsi in una volontà operante, capace di indicare una destinazione: un mondo in cui l’esperienza della coscienza, per dirla con Hegel, giunga a comprendere che la presenza dell’altro è condizione necessaria della ricerca della propria stessa identità. “Costituzionalizzare” l’Europa per impedirne il tramonto, per arrestare la decadenza della sua volontà di potenza, rappresenta la prospettiva opposta. E nessun “potere che frena” basterebbe alla bisogna. Che il tramonto divenga un tramontare , questo occorre, che sia conflitto verso ogni forma di idolatria identitaria, che sia apertura all’imprevedibile e all’in- audito che ogni incontro con l’altro, ogni nuova aurora, porta con sé.
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