Tutte le piste della Jihad dalle scuole nigeriane alle spiagge di Zanzibar

by redazione | 10 Maggio 2014 10:31

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Gli alleati di Boko Haram nell’Africa sub-sahariana Anche Abubakar Shekau tiene famiglia. In un video del 2012 il leader di Boko Haram annunciava vendetta contro le forze di sicurezza nigeriane che avevano cominciato ad arrestare decine di parenti (anche suoi) come strumento di pressione: «Avete preso le nostre donne? Aspettate di vedere cosa succederà alle vostre».
Dal 2013 Shekau ha dato il via ai sequestri, in un’escalation culminata nel rapimento di massa delle duecento studentesse di Chibok il 14 aprile. C’è chi sostiene che questo crimine danneggerà anche l’immagine di Boko Haram, erodendo il sostegno silenzioso di cui ha in parte goduto fuori e dentro la Nigeria. Di certo ne aumenterà il prestigio all’interno di quella «fascia jihadista» che cinge e minaccia «la pancia» dell’Africa dall’Atlantico all’Oceano Indiano. E’ vero che si tratta di una minaccia largamente minoritaria, in un panorama di convivenza inter-religiosa radicata e diffusa a sud del Sahara. Su un miliardo di africani, i musulmani sono circa un terzo: il loro modello non è certo Shekau, semmai il re del cemento nigeriano Aliko Dangote, l’uomo più ricco del continente. Ed è vero che l’estremità orientale della «fascia» integralista, Al Shebaab, non la fa più da padrone come un tempo nella disastrata Somalia. Però il raggio di azione dei «Giovani» miliziani somali si è ampliato: cellule di Al Shebaab sono state segnalate a Tanga, una delle principali città costiere della Tanzania, Paese dove i cattolici sono il 20% della popolazione e i musulmani il 35%: lì il verbo della jihad arriva dal mare, dall’isola di Zanzibar (a grande maggioranza islamica) dove sta guadagnando terreno il gruppo estremista Uamsho («risveglio» in swahili) che predica la violenza contro i cristiani. Sempre sul fronte orientale, nel vicino Kenya, le frange autoctone che sostengono gli estremisti somali vengono braccate dalle forze di sicurezza, specie dopo la strage al Westgate shopping center di Nairobi che l’anno scorso ha fatto 67 vittime. Un mese fa a Mombasa, dove la moschea Musa è considerata un fortino dei violenti, è stato ucciso Abubakar Ahmed alias Makaburi (Tomba), campione della retorica integralista che aveva giustificato la strage di donne e bambini al Westgate in base al principio della ritorsione caro a Boko Haram. Lo sceicco Tomba, così chiamato per la sua fiera opposizione ai riti della sepoltura giudicati non conformi al «vero Islam», usciva dal palazzo di giustizia dove (per l’ennesima volta) i magistrati non erano riusciti a incriminarlo. A ucciderlo, secondo i suoi sostenitori, gli uomini uno squadrone della morte legato alla polizia.
Se potessero, è quello che farebbero in Nigeria con Shekau. Si ritiene che il leader di Boko Haram si nasconda in un rifugio sicuro oltre il confine: nel nord del Camerun (dove aveva già trascorso un periodo di convalescenza in seguito a una ferita) o in Niger. Secondo un recente rapporto dell’Onu il gruppo che ha rapito le studentesse di Chibok sta sondando il terreno in cerca di approdi e proseliti anche nella Repubblica Centrafricana, approfittando del vuoto di potere e della carneficina in corso a Bangui e dintorni. In quell’area anche la leadership di Al Qaeda nel Maghreb Islamico ha «fiutato» buone possibilità per espandersi verso Sud, bypassando Mali e Chad dove ultimamente non ha vita facile. Gli scontri inter-confessionali che da alcuni mesi devastano il Centrafrica (la pallida presenza di una task-force francese non basta a dare sicurezza alla popolazione civile) portano anche questo effetto collaterale. La «pulizia religiosa» perpetrata dalle milizie cristiane anti-balaka (dopo le violenze commesse dai musulmani Seleka) costituiscono un terreno fertile per i gruppi radicali esterni. E non solo: la nascita di una milizia di auto-difesa denominata «Resistenza musulmana», forte di cinquemila armati, rappresenta un ulteriore passo verso l’abisso, in attesa che la (lenta) missione dell’Onu si palesi all’orizzonte non prima del 15 settembre.
Bambini fatti a pezzi con i machete, donne trascinate dai pullman e violentate mentre fuggono dal loro Paese, dalle loro case: le migliaia di vittime (ora soprattutto musulmane) del Centrafrica non hanno un hashtag che certifichi il loro dramma. Ma sono molto più «vicine» alle ragazze straziate di Chibok di quanto possiamo essere noi su Twitter.
Michele Farina

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