Oltre la trappola del territorio
Esistono parole di cui tutti siamo convinti di conoscere alla perfezione il significato ma che poi scopriamo quanto, in realtà, siano estremamente difficili da definire. Accade così ad esempio con il termine «tempo», a proposito del quale Sant’Agostino diceva di sapere perfettamente cosa fosse, ma a spiegarlo, avrebbe trovato non poche difficoltà. È proprio a questo rimando agostiniano che si rifanno Carlo Cellamare, Roberto De Angelis, Massimo Ilardi ed Enzo Scandurra per affrontare il discorso su cosa sia un territorio, all’inizio della prefazione del loro Recinti urbani. Roma e i luoghi dell’abitare, uscito di recente per manifestolibri (Roma, pp. 126, euro 14). La risposta a tale quesito acquista un carattere dirimente e va oltre i confini del testo in questione. Gli autori, infatti, sono anche i curatori di una nuova collana, intitolata non a caso «Territori», di cui questo libro rappresenta la prima uscita. Il loro approccio alla questione, le riflessioni e le valutazioni espresse, le situazioni descritte ed analizzate, dunque, acquistano anche un valore programmatico, tendono a indicare, a iniziare a tracciare i percorsi possibili lungo i quali si inoltreranno anche i testi a venire. Il tutto non all’interno di una struttura chiusa e definita, ma al contrario in qualche maniera aperta, rizomatica quasi, in grado cioè di dare conto di punti di vista differenti, di analisi a più livelli, di approfondimenti multisettoriali.
Del resto, come affermano gli stessi autori, il problema della definizione della parola «territorio» più che risolto «può essere aggirato se partiamo dal presupposto che esso è il luogo in cui si co-abita, intesa questa come forma dello stare insieme tra esseri viventi e tra questi e la natura». E tale coabitazione, quasi mai pacifica, fa sì che «il territorio finisce per essere un luogo di conflitti permanenti», in cui vengono ad essere messi in gioco non soltanto valori e storie differenti, ma anche fattori quali l’emotività e l’affettività.
Tale concezione, che coinvolge dunque anche l’elemento culturale, quello simbolico, quello politico, emerge in questi saggi su di una città ricca di contraddizioni come Roma. E non è solo la diversa provenienza disciplinare degli autori – due urbanisti, un antropologo e un sociologo – né la diversità dei quartieri scelti come oggetto dell’indagine a garantire la molteplicità degli approcci e dei punti di vista, ma il metodo utilizzato, in grado di coniugare riflessione teorica, storia, narrazione ed esperienza vissuta.
Così, Enzo Scandurra nel suo Territorio come narrazione di forme di vita, partendo dalla concezione di territorio come suolo da sfruttare, problematicizza ulteriormente la sua definizione insistendo sul suo carattere di costruzione culturale e sul rapporto territorio-uomo-memoria.
Roberto De Angelis, invece, si concente su di una «periferia imperfetta», San Basilio, dove emerge in tutta la sua drammaticità «una caratteristica di fondo del caso italiano: la riproduzione della povertà attraverso le generazioni». Una narrazione ricca di dati, raffronti con altre situazioni come le banlieues parigine, ma soprattutto in cui si ritrovano le storie e le voci dei suoi abitanti, come quella di Nino il Sinto, da cui vengono fuori tutte le trasformazioni che hanno investito il quartiere. Anche lo sguardo di Carlo Cellamare si appunta sulla periferia, concentrandosi però sulle diverse forme di autorganizzazione e autogestione con cui gli abitanti hanno cercato di affrontare i disagi legati al territorio, tentando di riappropriarsene. Il tutto alla luce di una questione fondamentale connessa al «fare città»: «Chi produce la città? Chi la costruisce?» in un’epoca in cui le forze economiche «hanno una preponderante capacità di orientare, condizionare e addirittura mettere al lavoro la città». Infine Massimo Ilardi, sulla scorta dei propri ricordi, racconta le trasformazioni profonde che hanno investito, a partire dagli anni Cinquanta, quella che lui stesso definisce «una periferia al centro della città», ovvero Trastevere, quartiere simbolo che da sempre incarnava l’anima più profonda di Roma.
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