Taranto, la bella avvelenata
«Soffocata a occidente dall’enorme zona industriale (centro siderurgico Italsider) e a oriente da una sgangherata espansione edilizia, Taranto offre oggi al visitatore uno spettacolo raccapricciante, esempio da manuale di che cosa può produrre il sonno della ragione, cioè il sistematico disprezzo per le norme elementari del vivere associato nel nostro tempo». Non è un’inchiesta dei giorni nostri, è un articolo profetico di Antonio Cederna sul Corriere della Sera del 18 aprile del 1972, quarantadue anni fa. In un pezzo di qualche giorno prima aveva scritto: «Era logico pensare che un’impresa così gigantesca che coinvolge tutto il territorio dovesse essere inquadrata in un provvedimento urbanistico ed economico strettamente coordinato e integrato con ogni altra attività (agricoltura, media e piccola industria, difesa delle risorse ambientali, edilizia economica e popolare, eccetera) provvedendo nello stesso tempo ad affrontare i problemi creati dal proprio peso schiacciante (dalla progressiva analisi del traffico all’inquinamento dell’aria e dell’acqua). Niente di tutto questo: è triste dover riconoscere che l’industria a partecipazione statale, che beneficia di enormi contributi e agevolazioni da parte dello Stato pretende di far a meno di piani che appena esorbitino dal suo limitato settore e, giovandosi della debolezza dei responsabili a tutti i livelli, impone le proprie scelte particolari alla comunità». Cederna si riferisce al raddoppio (da mille a duemila ettari) del centro siderurgico allora avviato, con lavori ciclopici che alteravano la geografia dei luoghi, in contrasto con gli strumenti urbanistici.
Eppure, in quegli stessi anni, il Comune di Taranto era attraversato da sorprendenti spinte innovative, quasi contemporaneamente a Bologna, e cominciava a progettare il recupero del centro storico, cioè di Città Vecchia, l’isola, anima e simbolo di Taranto, che separa il Mar Piccolo dal Mar Grande, dove si erano insediati i primi coloni greci. Fu una vicenda straordinaria legata al nome dell’architetto Franco Blandino, che ha dedicato la vita allo studio, alla conservazione e alla rinascita della sua città (esperienza che Enrico Grifoni e altri giovani urbanisti stanno cercando di rilanciare). Nel 1974 il Consiglio d’Europa riconobbe a Bologna e a Taranto il primato in materia di recupero del patrimonio abitativo storico. E grazie alle leggi di riforma degli anni Settanta e a cessioni volontarie il comune acquisì circa trecento alloggi degradati destinandoli a edilizia popolare. La maggior parte delle poche famiglie che oggi abitano nella Città Vecchia sono inquilini di quegli alloggi. Il recupero andò avanti abbastanza coerentemente fino all’inizio degli anni Ottanta, sostenuto in particolare dal sindaco comunista Giuseppe Cannata, in carica dal 1976 al 1983.
Poi, a mano a mano, è cambiato tutto e il recupero è finito su un binario morto. Nel 1993 fu eletto sindaco Giancarlo Cito, una specie di Berlusconi in formato ridotto. Anche lui, all’inizio degli anni Novanta, usando spregiudicatamente una sua televisione locale, raccolse crescenti consensi e nel 1993 fu eletto sindaco con un suo partito, AT6 — Lega d’Azione Meridionale. Assunse iniziative spettacolari, ma durò poco. Nel 1995 fu rinviato a giudizio per concorso esterno in associazione mafiosa. Deputato nel 1996, è stato poi definitivamente condannato e incarcerato. Da ricordare anche Rossana Di Bello, la prima donna sindaco di Taranto dal 2000 a 2006, esponente di Forza Italia, che provocò un pauroso dissesto nelle finanze comunali.
Intanto Taranto diventa sempre più «la piccola appendice di un gigantesco monnezzaio» (Adriano Sofri). Accanto al più grande centro siderurgico d’Europa convivono un porto industriale, una raffineria, un cementificio, due termovalorizzatori, centinaia di altre attività cresciute vertiginosamente: un immane complesso industriale è scagliato addosso a una città dalle strutture fragilissime. Dall’inizio dell’industrializzazione, la superficie urbanizzata si è almeno decuplicata, da circa 500 a oltre 5.000 ettari, più della metà per attività produttive.
Una città e un paesaggio fino a cinquant’anni fa di emozionante bellezza, sono oggi irriconoscibili. L’isola versa in condizioni orribili, è in rovina, in gran parte disabitata e murata per impedire l’accesso nelle aree a rischio di crolli. I muri esposti ai venti che vengono dalla fabbrica sono marcati dai segni rossastri delle polveri dei parchi minerari criminosamente collocati a ridosso del cimitero, del centro storico e del quartiere Tamburi. Ai bambini del quartiere è proibito giocare negli spazi verdi (si fa per dire) contaminati da berillio, antimonio, piombo, zinco, cobalto nichel e altri veleni. La rovina colpisce anche la campagna in gran parte trasformata in una sconfinata e desolata distesa di sterpaglie bruciate dal sole e dagli incendi. Viene proibito l’allevamento del bestiame e sono soppressi gli animali contaminati. Sono state smaltite in discarica montagne di cozze coltivate nel Mar Piccolo.
Ma la politica locale e nazionale e i sindacati stanno dalla parte dell’industria, in difesa purchessia del lavoro, poco attenti alle conseguenze micidiali di una dissennata industrializzazione. I primi controlli ambientali a norma di legge cominciano nel 2006 con la presidenza di Nichi Vendola alla Regione Puglia. All’assenza di politiche pubbliche la città risponde con la ricerca privata di migliori condizioni ambientali. I tarantini voltano le spalle alla fabbrica e fuggono verso est, da capo San Vito a Marina di Pulsano e oltre, in quella «sgangherata periferia» che dalla denuncia di Cederna del 1972 ha continuato a essere comandata dal cemento e dall’asfalto. In trent’anni, i residenti in città sono diminuiti di circa 30 mila, una specie di si salvi chi può.
La scena cambia repentinamente nel luglio del 2012, quando la giudice per le indagini preliminari Patrizia Todisco impone all’Ilva della famiglia Riva di sospendere la produzione fino a quando non fossero eliminate le emissioni nocive. L’Italia del Palazzo rimane spiazzata e cerca impossibili compromessi. Il ministro dell’Ambiente Corrado Clini arriva a negare la storia sostenendo che è stata la città a circondare la fabbrica. Il contrasto fra la magistratura da una parte e il governo e l’Ilva dall’altra diventa imbarazzante e settori sempre più vasti dell’opinione pubblica si schierano a sostegno della magistratura.
Si susseguono le inchieste, i servizi giornalistici, le interviste, i sondaggi, che affrontano soprattutto il rapporto fabbrica-salute dando conto dei gravissimi danni inflitti ai lavoratori e a tutti i tarantini dall’apocalittico inquinamento. Ma non mancano le disperate dichiarazioni di chi preferisce la morte alla disoccupazione.
La vasta discussione sull’inquinamento trascura però quasi del tutto le vistose responsabilità del Comune e degli altri pubblici poteri in materia di politiche territoriali. Mentre avanza il degrado, le scelte più importanti fra Comune e Regione hanno riguardato il discutibile impianto — in località Cimino, in prossimità del centro commerciale Auchan e della lottizzazione Sircom, sempre nella sgangherata periferia orientale — del nuovo polo ospedaliero S. Cataldo, che sostituisce l’antico ospedale della SS. Annunziata e quello più recente di Statte.
Invece, a Taranto, proprio per compensare la prepotenza di una spietata industrializzazione sarebbe stato importante — è importante — un impegno eccezionale di Comune e Regione per non arrendersi alla spirale perversa della degradazione e dell’abbandono. Ma forse non tutto è perduto se in un recente documento di Anna Migliaccio destinato alla Regione si legge quanto segue. «Per riconciliare ambiente e società bisogna approntare la cura per i danni accertati e, contemporaneamente, costruire una nuova via allo sviluppo locale, ripartendo dai valori patrimoniali resistenti. Taranto è una città ancora ricca di risorse e, malgrado le offese, capace ancora di convincente bellezza. (…). Dallo splendore resistente di questa antichissima città del Mediterraneo si può e si deve ripartire per ritrovare il bandolo del futuro».
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