Suicidi e crisi. La morte del samurai

Suicidi e crisi. La morte del samurai

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Tam­buri, il quar­tiere a 135 metri dall’Ilva di Taranto. Popo­lare e peri­fe­rico, è uno dei tanti luo­ghi si segre­ga­zione e abban­dono sul quale si è abbat­tuta la furia dell’acciaieria più grande d’Europa. Non era acca­duto nem­meno con gli slum otto­cen­te­schi in Inghil­terra che un quar­tiere dove vivono 16 mila per­sone e con una disoc­cu­pa­zione che sfiora il 60% fosse stri­to­lato da una poli­tica urba­ni­stica peg­giore di quella delle città ope­raie della prima rivo­lu­zione industriale.

Il viag­gio nella «fab­brica del sui­ci­dio» di Ste­fa­nia Fer­raro nel volume Suicidi. Stu­dio sulla con­di­zione umana nella crisi, a cura di Anna Simone, Mime­sis, pp. 120, euro 12) è il rac­conto del neo­co­lo­nia­li­smo delle poli­ti­che indu­striali for­di­ste ad alta inten­sità di capi­tale e a bassa inten­sità lavo­ra­tiva nel Sud Ita­lia, ma anche la costru­zione della dispe­ra­zione sociale legata al ricatto occu­pa­zio­nale. Il Capi­tale di Stato, prima, poi quello cri­mi­nale pri­vato, ha estratto il valore dal corpo di donne e uomini, bam­bini e anziani, dall’ecosistema e da ogni forma di vita orga­nica e inor­ga­nica. Per soprav­vi­vere devi avere un sala­rio dall’Ilva, ma se l’Ilva pro­duce si muore di can­cro. L’alternativa tra diritto al lavoro sala­riato e diritto alla salute è stata impo­sta da un capi­ta­li­smo che a Taranto ha perso il velo di ipo­cri­sia demo­cra­tica e ha mani­fe­stato la sua natura tana­to­po­li­tica. A Taranto que­sta poli­tica di morte della fab­brica for­di­sta ha indotto esseri viventi ridotti alla mar­gi­na­lità a matu­rare una «pre­di­spo­si­zione al sui­ci­dio altrui­stico obbligato».

La defi­ni­zione del socio­logo fran­cese Emile Dur­kheim sul sui­ci­dio viene appli­cata a diversi ambiti del lavoro tra­volti in Ita­lia dalla grande reces­sione ini­ziata dal 2008. Il volume si pro­pone di rico­struire una «genea­lo­gia del sog­getto sui­ci­dia­rio» a par­tire da qua­ranta sto­rie di per­sone che si sono tolte la vita in Ita­lia tra il 2012 e il 2013. Inteso come «fatto sociale», il sui­ci­dio tra ope­rai, pic­coli impren­di­tori o dot­to­randi di ricerca all’università (la sto­ria di Nor­man Zan­cone, gio­vane filo­sofo sui­cida a Palermo) viene accet­tato come forma estrema di pro­te­sta e al fondo – scri­vono gli autori che hanno par­te­ci­pato alla ricerca (ci sono Sara Fariello, Cate­rina Peroni e Pie­tro Saitta sul car­cere) – pre­senta il carat­tere di com­pi­mento di un dovere: quello di lavo­rare per essere cittadini.

Senza lavoro, l’«uomo inde­bi­tato» viene tra­volto dalla ver­go­gna, non è più un cit­ta­dino. Debito, colpa, fal­li­mento sono alla base dell’«etica del samu­rai» nei suicidi eco­no­mici tra i pic­coli impren­di­tori in Veneto. Cate­rina Peroni la spiega pro­po­nendo una genea­lo­gia dell’imprenditore del Nord-Est con inter­vi­ste con Gian­franco Bet­tin o Giu­seppe Bortolussi.

Con­si­de­rata a lungo una «loco­mo­tiva», oggi l’impresa proto-moderna basata sull’autosfruttamento, i dipen­denti come figli sui quali l’imprenditore maschio e padre di fami­glia porta la respon­sa­bi­lità e l’onore, diventa la miscela mor­tale che lo porta a «togliere il peso dalla terra». Si è incri­nata l’assoluta con­ti­nuità tra vita e lavoro nel capi­ta­li­smo post-fordista e si riflette su tutte le figure del lavoro auto­nomo o pre­ca­rio costruiti sul modello dell’«imprenditore di se stesso».

Nella fili­grana del sui­ci­dio emerge la crisi del sog­getto del neo­li­be­ri­smo che aveva legato il suo stile di vita all’ottenimento del cre­dito, di un sala­rio, del rico­no­sci­mento da parte di un sistema che mette la vita al lavoro. Oggi que­sto lavoro intrat­tiene un rap­porto intimo con la morte: si muore per assenza di lavoro e si muore a causa del lavoro.



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