Che succede dopo la sentenza sul “diritto all’oblio”?

Che succede dopo la sentenza sul “diritto all’oblio”?

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La decisione della Corte di Giustizia Europea sul cosiddetto “diritto all’oblio” e i motori di ricerca sta raccogliendo molte reazioni e commenti in tutto il mondo e molti dubbi e preoccupazioni, soprattutto da parte di chi si occupa di diritto della comunicazione, per le ricadute pratiche che potrebbe avere su come è usata Internet e su come funziona in Europa. In breve, la Corte ha stabilito che i cittadini europei hanno il diritto di chiedere ai motori di ricerca di eliminare dalle loro pagine dei risultati i link che rimandano verso “contenuti non più rilevanti” che li riguardano. La decisione, come è spiegato più estesamente qui, è nata da una causa sulla privacy in Spagna contro Google, il più grande motore di ricerca al mondo e il più utilizzato in buona parte dell’Unione.
In una analisi pubblicata sul Financial Times, Alex Barker e James Fontanella-Khan spiegano che la sentenza della Corte non può essere appellata e sancisce un principio che potrà essere ripreso dai tribunali dei singoli stati membri, sia con difficoltà di attuazione che con implicazioni potenzialmente enormi e non solo per Google. I motori di ricerca dovranno ripensare il modo in cui gestiscono i link e rimandano verso i contenuti dei siti che indicizzano.
Di fatto, la sentenza rende Google e gli altri motori di ricerca responsabili per la visibilità dei contenuti che circolano online, anche se li hanno solo aggregati per inserirli nei loro indici e nelle loro pagine dei risultati. Se riceveranno da singoli cittadini la richiesta di rimuovere i link verso particolari contenuti ritenuti non più rilevanti, dovranno farlo, anche se i siti che concretamente ospitano quei contenuti potranno continuare a mantenerli online. Semplificando, la Corte ha stabilito che in particolari circostanze alcuni contenuti non potranno essere più linkati sui motori di ricerca, anche se questi contenuti sono legittimati a esistere.
La sentenza è abbastanza generica e ne consegue che moltissime cose possano rientrare sotto la estesa definizione del “non più rilevante”: link verso fotografie della propria adolescenza, commenti ingiuriosi sui social network, allusioni maliziose, provvedimenti giudiziari ormai scontati, documenti aziendali sulle assunzioni e così via. A valutarlo, stando alla sentenza, è l’utente stesso che può chiedere la “deindicizzazione” di quei contenuti, e se il motore di ricerca non acconsente può rivolgersi a una corte nazionale chiedendone il giudizio a partire dalla sentenza europea di oggi.
Il Financial Times si chiede se sarà mai possibile mettere in pratica quanto deciso dalla Corte, e se tutto questo non porterà a una serie infinita di richieste e ricorsi da parte di singoli cittadini, che vogliono rendere impossibili da trovare cose che ritengono di occultare del loro passato.
A tutto questo si aggiunge un secondo problema, forse ancora più grande e di natura etica. Per come è fatta la sentenza, di fronte a eventuali richieste Google e gli altri motori di ricerca saranno messi nella posizione di decidere che cosa sia di pubblico interesse ed ancora rilevante e cosa non lo sia. La Corte ha stabilito che nel caso in cui siano coinvolti “personaggi pubblici”, i motori di ricerca abbiano la facoltà di opporsi alla richiesta di rimozione e di rinviare il caso al tribunale nazionale competente o una autorità per la tutela della privacy. Ma anche in questo caso ci sarebbe comunque un elemento di discrezionalità: Google, o un altro motore di ricerca come Bing o Yahoo, potrebbe decidere di opporsi ad alcune richieste e non ad altre, creando di fatto delle disparità di trattamento.
Lasciando da parte i personaggi pubblici (e la confusione generata da quali siano le informazioni “pubbliche” sui personaggi pubblici), ci potrebbero essere problemi anche per quanto riguarda i singoli utenti privati. In alcuni casi rendere meno accessibili le informazioni “negative” sul passato di una persona può rappresentare un rischio per coloro che ci abbiano a che fare: di fatto, già nella vita reale regoliamo le nostre scelte e le nostre decisioni nei confronti degli altri a partire dalle informazioni che abbiamo su di loro, come è normale. Per fare un esempio, l’informazione su una condanna per atti violenti deve essere nascosta o resa accessibile a chi abbia successivi rapporti con la persona condannata?
David Meyer di GigaOm osserva inoltre che la sentenza della Corte dimostra di essere poco lungimirante, perché fotografa la situazione per come è adesso, in cui fare una ricerca online equivale sostanzialmente a usare un solo motore di ricerca, Google, che detiene circa il 90 per cento del mercato europeo. Impedire a Google di linkare un determinato contenuto “non più rilevante” può avere senso, perché è sufficiente per rendere praticamente introvabile quel contenuto, ma in un mercato più aperto che cosa accadrebbe?
Se in futuro ci saranno più concorrenti alla pari, si chiede Meyer, chi vorrà fare rimuovere determinati link dalle pagine dei risultati dovrà presentare una richiesta a ogni singolo motore di ricerca? E che succederà nel caso in cui in futuro ci dovesse essere un motore di ricerca che funziona in modo distribuito e non centralizzato come fa Google oggi? Chi diventerebbe il referente? Ce ne dovrebbe essere uno per ogni paese in cui c’è il motore di ricerca? E che senso ha comunque eliminare i link nelle pagine dei risultati se i contenuti in questione possono comunque rimanere online? Il risultato è che – stando al caso giudicato dalla Corte – se cercheremo su Google il nome della persona che ha fatto ricorso non troveremo elencata quell’informazione; se cercheremo sul sito del giornale il suo stesso nome, sì.
Per non dire della zona grigia in cui si trovano proprio i motori di ricerca interni dei siti: l’utente spagnolo può chiedere che l’articolo che lo riguarda non compaia nemmeno nei risultati delle ricerche fatte sul sito che ospita l’articolo?
Nelle prossime settimane Google e gli altri motori di ricerca dovranno trovare modi e vie legali per affrontare richieste analoghe a quelle che hanno portato alla sentenza della Corte di Giustizia Europea. Si dovranno inoltre confrontare con le decisioni dei singoli tribunali nazionali, che si muoveranno sulle basi della sentenza e senza un quadro legislativo ancora completo e coerente nell’Unione Europea. Nonostante l’entusiasmo di alcuni esponenti europei, che da tempo sostengono la necessità di normare il cosiddetto “diritto all’oblio”, tra i principali osservatori ed esperti di diritto della comunicazione c’è una cospicua preoccupazione per le conseguenze che potrà avere la sentenza sulla rimozione dei link e le complicazioni della sua attuazione.



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