La sfida della sinistra deve essere alternativa alla austerity
LE ELEZIONI EUROPEE DEL 25 MAGGIO SARANNO CRUCIALI PER IL FUTURO DELL’EUROPA E IL DESTINO DELL’EURO. Due libri recenti di Colin Crouch (Making Capitalism fit for Society in traduzione da Laterza) e di Wolfgang Streeck (Tempo guadagnato La crisi rinviata del capitalismo democratico, Feltrinelli) sono esemplari di questa crucialità, sostenendo due tesi diametralmente opposte sulle ragioni per cui bisogna preoccuparsi dei populismi antieuropei. Per Crouch è fondamentale evitare il ritorno ai nazionalismi e al protezionismo economico. Nella costruzione di network globali alternativi a quelli basati sul signoraggio del dollaro e sul potere delle grandi corporation, l’Europa è il «miglior candidato» per muovere verso una globalizzazione «equa» e la moneta unica – pur mal concepita e ancora peggio congegnata – è stato, e rimane, un passaggio importante per andare in questa direzione. L’Europa, infatti, se negli ultimi anni ha visto prevalere le componenti politiche di centro-destra che la vogliono configurare come aggressiva «forza di mercatizzazione», ha però sempre coltivato nel suo seno una pluralità di ispirazioni e anche componenti animate dall’identificare un «distinto ruolo» per politiche sociali di profonda correzione delle tendenze distruttive intrinseche ai mercati. Il che ha portato a realizzazioni «impressionanti » per esempio all’epoca delle presidenze Delors e Prodi e con la Carta dei diritti. L’Europa unita, dunque, per Crouch rimane un orizzonte fondamentale e il neoliberismo – fin qui sconfitto, con la crisi scoppiata nel 2007/2008, sul piano culturale, ma tutt’altro che vinto sul piano pratico – sia profondamente combattuto e piegato. L’alternativa a questo percorso non sarebbe un’impossibile ritorno all’autonomia degli stati nazionali, ma la subordinazione al potere delle corporation globali, degli stock markets, delle agenzie di rating. La sinistra – specie quella socialdemocratica, in congiunzione con il sindacato che ha bisogno di cambiamenti nelle strategie e nei modelli organizzativi ma rimane un’istituzione estremamente vitale – ha un compito decisivo da svolgere, a patto di uscire dall’assetto odierno, prevalentemente «difensivo», assumendo un orientamento nettamente «assertivo» e di allearsi con le istanze ambientaliste, con i movimenti femministi, con altri movimenti che animano il variegato scenario della società civile. Al contrario, secondo Streeck, di fronte agli esiti recessivi e stagnazionistici generati in tutti i paesi europei dai tentativi di salvare l’Euro e dalle politiche di «deflazionistica disciplina fiscale» imposte dalla Germania della Merkel, è arrivato il momento di riconoscere che il processo dell’Europa unita, basato sulla cessione di sovranità da parte degli stati nazionali, è stato segnato fin dall’inizio dalla volontà di trasformare l’Unione in un «catalizzatore della liberalizzazione del capitalismo», volontà a cui hanno finito con l’aderire anche personaggi come Delors e Prodi i quali, anzi, hanno il demerito di essersi eretti a paladini della necessità che l’Europa riconquistasse primariamente competitività nei confronti degli Usa. Così si è dato vita a una struttura istituzionale malata, «progettata per garantire che gli stati nazionali un tempo sovrani si conformino alle richieste del mercato». L’Euro è stato un tassello decisivo di questo processo, componente centrale dell’applicazione all’Europa del progetto neoliberista. È tutto ciò che torna a dare grande valore alla questione della sovranità nazionale: sarebbe esiziale procedere con «fughe in avanti» verso l’Europa unificata anche sul piano politico e invece bisogna ripristinare le sovranità nazionali, consentendo a ogni paese di coltivare la propria diversità, senza inseguire feroci convergenze. Per Streeck un Piano Marshall per l’Europa – che è proprio la richiesta della DGB tedesca e di altri sindacati europei, tra cui la Cgil che avanza anche la proposta di un Piano del lavoro interno – oggi «sarebbe impensabile».
È interessante notare che una componente fondamentale delle opposte argomentazioni di Crouch e di Streeck è la questione della «riformabilità» o «irriformabilità » del capitalismo. Streeck pensa che sia in atto un processo inarrestabile di «convergenza» delle economie sviluppate verso un modello unico, quello neoliberistico anglosassone, il che toglie validità all’approccio della variety of capitalism e, soprattutto, rende difficile al limite dell’impossibile ogni opzione di riformabilità del capitalismo. Crouch, invece, crede nella riformabilità del capitalismo e nella persistente pluralità dei «tipi di capitalismo». Su questa base rilancia alla grande l’obiettivo ambizioso della «riforma del capitalismo», con accenti che richiamano Keynes che negli anni ’30 individua al centro del nuovo liberalismo le azioni umane non determinate dal profitto e dunque il lavoro fonte di un nuovo umanesimo. Per questo è sbagliato non vedere le differenze che ci sono state e ci sono tra destra e sinistra. Le timidezze, le reticenze le vere e proprie subalternità che le sinistre hanno avuto nei confronti del neoliberismo sono indubbie, soprattutto nella Terza Via di Tony Blair. Ma è la sinistra la «maggiore sorgente di alternative all’interno della società capitalistica», alternative che rischiano di essere marginalizzate se l’«austerità » e la «precarietà» falsamente «espansive» procedono stritolando ogni cosa lungo il suo cammino.
Oggi l’alternativa di sinistra per un’eguaglianza non derubricata a semplice equità richiede per l’Europa l’abbandono delle politiche di austerità e il lancio di strategie di investimenti e di generazione diretta di occupazione: non basta il semplice incremento della occupabilità presupposto dalla «youth guarantee» e dal Jobs Act di Renzi. Non si può non vedere che, dopo la profonda depressione di questi anni l’apparente ripresa in Irlanda e in Spagna è dovuta a un recupero di produttività generato da una fortissima espulsione di forza, il che spinge la disoccupazione a livelli stratosferici, i quali, a loro volta comprimono i salari verso il basso. Va invertita la rotta. Si tratta di procedere a un aggiustamento di reddito e spesa, prendendo atto che in assenza di domanda è semplicemente folle insistere nel rendere i paesi debitori maggiormente competitivi; a una ristrutturazione e mutualizzazione del debito; e a un aggiustamento finanziario, cambiando i Trattati e spingendo la Bce a un maggior sostegno dell’economia reale, dandole anche la possibilità di finanziare i governi direttamente.
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