Riforma terzo settore. Moro: “Schemi vecchi, i dubbi restano”

Riforma terzo settore. Moro: “Schemi vecchi, i dubbi restano”

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ROMA – Positiva la volontà di Renzi di voler affrontare i problemi del variegato mondo del Terzo settore, ma “i dubbi restano”. Per Giovanni Moro, autore del libro “Contro il non profit”, pubblicato per Laterza, una coraggiosa panoramica di una realtà frastagliata troppo spesso raccolta sotto la bandiera del non profit senza distinzioni, le linee guida di riforma del Terzo settore presentate dal presidente del Consiglio Matteo Renzi nei giorni scorsi sono un passo che ha “valore in sé”, che riconosce “anche esplicitamente che ci sono dei problemi seri e si manifesta l’intenzione di superarli”, ma quello che non convince è l’approccio di base ad un mondo di cui ancora una volta si stenta a riconoscere chiaramente i confini.
Il magma del Terzo settore. Per Moro, infatti, le sette pagine di linee guida della riforma non aiutano a chiarire chi siano i destinatari finali dei futuri provvedimenti. “Si continua a parlare di Terzo settore, di questo non qualcosa, un magma che ho criticato perché non si capisce bene cosa ci stia dentro – spiega Moro -. Se dobbiamo prendere sul serio le definizioni ufficiali dell’Istat e dei documenti legislativi, dobbiamo dire che allora questa riforma riguarderà anche Confindustria, i sindacati, le università non statali, gli enti previdenziali, gli enti lirici e via di seguito”. Per Moro, infatti, nonostante sia positivo il tentativo di dare una svolta al mondo del Terzo settore, restano i vecchi schemi. “Ancora una volta si fa riferimento a forme giuridiche, quindi si elencano tipi di soggetti che sono tali perché dichiarati da leggi: le associazioni di volontariato, quelle di promozione sociale, le cooperative sociali, le misteriosissime imprese sociali e così via. Un approccio che si basa sulle forme più che sulla effettiva esistenza e consistenza di queste organizzazioni, sulle loro differenze, e secondo me è un limite. Anche se nel testo si parla di una verifica dell’autenticità sostanziale delle organizzazioni, siamo sempre nel quadro di una definizione che è estremamente formale. Questo non ci aiuta. Le leggi non fanno la realtà”.
Dividere i buoni dai cattivi non basta. Tra gli obiettivi principali indicati nelle linee guida, in primo piano c’è la volontà di “definire i confini e separare il grano dal loglio”, spiega il testo pubblicato da Renzi. Per Moro, però, dividere il settore in buoni e cattivi è una semplificazione eccessiva. “Il limite principale è che non c’è un riferimento al fatto che il valore sociale di queste organizzazioni deve essere determinato in base alle loro attività – spiega -, non in base alle loro intenzioni espresse negli statuti. Il problema non è che ci sono solo soggetti buoni e cattivi. Magari fosse così semplice. Il problema è che anche i buoni sono molto diversi tra loro. Un’associazione di volontariato che fa assistenza domiciliare ai malati terminali non ha lo stesso valore sociale di una associazione di volontariato che organizza gite turistiche e questo dobbiamo tenerlo presente, altrimenti facciamo sciocchezze. La promozione di attività di mera socialità o le attività rivolte principalmente ai propri soci non hanno lo stesso significato sociale per l’interesse generale, altra questione che manca anche se per me è la più importante”. Il problema, secondo Moro, è di impostazione. “Siamo sempre in una logica di accountability verso i donatori. Quella che manca è la prospettiva dei beneficiari, quando invece si pensa che tutto il problema sia la trasparenza in materia finanziaria, che è sacrosanta”.
L’Authority che non convince. Non euntusiasma neanche l’idea di istituire una Authority del Terzo settore. Una nuova realtà che possa avere un ruolo di controllo e, per qualcuno, anche sanzionatorio. “Sono piuttosto scettico sull’idea di un’altra agenzia per il terzo settore – spiega Moro -. Non perché quella che è esistita fino ad un certo punto non abbia cercato di fare per il meglio, ma perché qui dobbiamo confrontarci con un problema di dimensioni e di tipo di controlli”. Per Moro, infatti, controllare le attività di tutto quel che viene chiamato non profit oggi è quasi impossibile. “Non possiamo controllare un insieme di 100 mila organizzazioni, usando la definizione restrittiva del censimento dell’Istat. Come si fanno a controllare, se non ci si vuole limitare agli statuti, ma andando a guardare all’attività svolta? Mi sembra un po’ ingenua questa idea”. Anche il riferimento del sottosegretario al Welfare, Luigi Bobba, all’authority inglese convince poco Moro. “Si fa spesso l’esempio della Charity Commission inglese – spiega -. Resta il fatto che la Royal Opera House di Londra è una charity e mi domando perché. Farà delle ottime cose, ma resta sempre un teatro dell’Opera. Chi gliel’ha attribuito questo status? La Charity Commission inglese”.
Le nebbie dell’impresa sociale. Uno degli interventi contenuti all’interno delle linee guida a cui il governo sembra tenere maggiormente è poi quello dell’impresa sociale. L’obiettivo, spiega il testo di Renzi, è “far decollare davvero” per dimostrare “che capitalismo e solidarietà possono abbracciarsi in modo nuovo attraverso l’affermazione di uno spazio imprenditoriale non residuale per le organizzazioni private”. Ma per Moro, le nebbie che avvolgono questo tema sono così spesse che è difficile orientarsi. E neanche le linee guida riescono a indicare una strada ben definita. “È un tema in cui non si capisce niente – sbotta Moro -. Non sono un tecnico della materia, ma mi sono trovato in grande difficoltà quando me ne sono occupato. Basta leggere la legge sull’impresa sociale e non capisci di cosa si sta parlando precisamente. Il governo, poi, ha proposto recentemente un emendamento in Parlamento alla legge dove si dice che può entrare anche capitale privato che può essere remunerato anche se poco. A questo punto non capisco più se queste organizzazioni sono o non sono non profit. Se è previsto che distribuiscono profitti allora di che stiamo parlando? Pensavo che non generare profitti fosse ritenuta una caratteristica fondamentale di queste organizzazioni”.
Il modello di welfare del futuro. Le prime reazioni provenienti dal Terzo settore al testo di Renzi, tuttavia, sono buone, ma quasi tutte sottolineano una lunga attesa prima che arrivasse questo segnale importante. Intanto, nell’attesa, il panorama su cui da anni si chiedono interventi non è più lo stesso. “La realtà è cambiata tantissimo – spiega Moro -. Queste proposte hanno qualcosa di abbastanza tradizionale e standard e soprattutto direi che danno per presupposta quella che proprio in questi ultimi anni è diventata una questione aperta: quale modello di welfare vogliamo servici per il futuro. Ho contato quante volte c’è la parola diritti nel documento e l’ho trovata solo due volte nelle enunciazioni di principio. Se vogliamo evitare di ritornare alla vecchia logica delle opere benefiche dell’800 o a una impostazione da welfare americano neoliberale in cui i benefici dello stato sociale sono non un diritto ma un atto di generosità della comunità, non dobbiamo dimenticare mai che stiamo parlando di diritti che definiscono la cittadinanza in Italia e in tutta Europa. Che modello di welfare vogliamo? Pensiamo ancora che il diritto all’assistenza sanitaria, alla previdenza siano diritti che definiscono l’essere cittadini o sono semplicemente una forma di aiuto che la comunità e lo Stato quando può dà a persone bisognose? Questa potrebbe essere l’occasione per fare una discussione che in Italia non si è mai fatta e mi auguro che la consultazione sia fatta non come vengono fatte di solito dalle amministrazioni pubbliche. Sono sicuro che un sacco di gente interverrà e spero che vengano valorizzati i contributi che si raccoglieranno”. (ga)

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