by redazione | 1 Maggio 2014 10:21
Donatella Della Porta insegna Scienze Politiche all’Istituto universitario Europeo di Firenze. Nel 2003 ha pubblicato il libro “Polizia e protesta. L’ordine pubblico dalla Liberazione ai no global” (il Mulino).
Sono passati più di dieci anni. Oggi, dopo il G8 di Genova, come è cambiata la polizia? Si può parlare di polizia democratica?
Gli eventi del G8 sicuramente hanno provocato un momento di forte crisi all’interno della polizia stessa, gli anni dopo Genova sono stati molto sofferti, con i sindacati schierati su posizioni anche molto diverse. Dopo il 2001 ci sono stati sforzi all’interno della polizia per cercare di ridurre la tendenza a questo tipo di approccio violento, ma ciò non significa che oggi si sia arrivati ad una gestione dell’ordine pubblico negoziata. Gli eccessi compiuti durante quell’evento non si sono più verificati, è vero, ma negli anni comunque ha prevalso una retorica dell’emergenza (basti pensare a cosa ha rappresentato l’11 settembre) che ha accentuato la visione del cittadino come eventuale nemico. La polizia è un oggetto complesso, sicuramente ci sono componenti democratiche, ma è interessante notare che il Sap è un sindacato di ampie dimensioni. Non sono pochi scalmanati.
Gli applausi ai poliziotti che hanno ucciso Aldrovandi sono solo un episodio disgustoso facile da condannare o qualcosa di più grave?
Sono il segno più evidente del fallimento della riforma della polizia incompiuta dagli anni Ottanta. Significa non essere riusciti a modificare non solo una cultura ma anche preparazioni specifiche. Oggi mancano ancora strumenti di controllo interno, la cultura dei poliziotti è rimasta pressoché la stessa. Alcune reazioni a caldo possono essere frutto di processi psicologici dettati da escalation, ma non è questo il caso: quella del Sap è stata una reazione a freddo, meditata, e quindi si tratta del sintomo eclatante di una profonda insufficienza democratica.
E’ una esagerazione sostenere che la polizia nelle sue pratiche esprime ancora una cultura prevalentemente fascista?
Prevalentemente direi di no. Sicuramente prevale una cultura di tipo autoritario, ma è un buon segno che il primo a criticare il Sap sia stato proprio il capo della polizia. Oggi non è più come una volta, per entrare in polizia non bisogna per forza essere orientati a destra. E’ vero però che in alcuni reparti c’è ancora l’idea della polizia come un corpo separato segnato da una forte militarizzazione dei comportamenti. E’ un retaggio che resiste ancora e che viene da lontano.
Nella quasi totale assenza di fenomeni di rivolta sociale, il controllo dei movimenti non è mai stato così agevole come in questi anni, eppure sempre più spesso le polizie si rendono protagoniste di pestaggi brutali. Magherini è l’ultimo morto di una lunga serie. Perché accade?
Una volta gli interventi della polizia si misuravano con governi meno permissivi e distanti, oggi con le grandi coalizioni o i governi tecnici la polizia sente che l’aggressività non incontra una reazione politica forte.
Dunque è un problema politico.
Oggi non c’è una opposizione politica forte. Centrodestra e centrosinistra, anche sulle questioni dell’ordine pubblico, sono indistinguibili. Ci sono solo singoli politici che tentano di fare argine. E l’unica opposizione, il 5 Stelle, non ha la stessa reattività che aveva una volta la sinistra.
Il perdurare della crisi, con il suo portato di rabbia e frustrazione diffuse, sta modificando le tecniche di repressione delle polizia?
La buona sicurezza costa. Nel corso degli anni neoliberismo e crisi economica hanno spazzato via sperimentazioni molto interessanti. La polizia di vicinato per esempio, oppure i luoghi di mediazione del conflitto che stanno chiudendo. In questo contesto è come se la polizia, lasciata sola, avesse più possibilità di sfogarsi. E dire che nei periodi di crisi economica bisognerebbe scegliere di investire su una buona sicurezza. Anche questo è un problema politico, basta guardare chi c’era l’altro giorno al convegno del Sap, c’era Gasparri, c’era La Russa.
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