by redazione | 30 Maggio 2014 15:46
Ancora una volta è toccato ai giudici sciogliere i nodi che la politica non è stata in grado di affrontare, sebbene fossero di sua stretta competenza. Come, nel caso specifico, la normativa sulle tossicodipendenze e i traffici di droga. Quando la legge cosiddetta Fini-Giovanardi introdusse inasprimenti di pene tali da decretare il carcere senza alternative a chi trafficava in stupefacenti, cancellando ogni distinzione tra qualità e quantità delle sostanze, fece una scelta politica. Con un metodo sbagliato, però; cioè infilando le dirompenti modifiche in un decreto legge che parlava di tutt’altro. La Corte costituzionale è intervenuta e ha dichiarato illegittimo quell’intervento, un «eccesso di potere» da parte di governo e Parlamento che — individuato a otto anni di distanza — ha portato alla cancellazione di tre articoli di quella legge, reintroducendo le norme precedenti. Con la conseguenza di rimettere in discussione il destino di migliaia di imputati ancora sotto processo, da giudicare in base a pene molto più basse per gli spacciatori delle droghe considerate «leggere», magari in piccole misure.
L’auspicio di una nuova legge
Ma che fare con chi è stato condannato da sentenze ormai irrevocabili? La domanda è arrivata all’esame di altri giudici, quelli della Cassazione, partendo dalla vicenda di F. G., condannato a sei anni di galera per detenzione a fine di spaccio di 12 dosi di marijuana e 14 di cocaina in base al «combinato disposto» della Fini-Giovanardi e della ex Cirielli che impediva la concessione delle attenuanti. Ieri la Corte Suprema — dopo che la Consulta aveva dichiarato incostituzionale un’altra norma: la prevalenza sempre e comunque dell’aggravante della recidiva — ha stabilito che pure ai condannati definitivi si devono ricalcolare le pene sulla base dei nuovi principi. Con la conseguenza (potenziale, al di là del caso singolo di F. G.) di far uscire di prigione prima della scadenza prevista alcune migliaia di detenuti.
La scarcerazione di un numero di persone che nessuno oggi è in grado di stabilire con certezza — le stime sono generiche e provvisorie perché i calcoli sono difficili ma una cifra verosimile si attesta intorno ai 4 mila detenuti — è comunque subordinata alle richieste degli avvocati e alle decisioni dei giudici dell’esecuzione. Il che significa andare incontro a nuovi procedimenti, che richiederanno tempo e soprattutto potrebbero essere tra loro difformi, perché non è detto che tutti si adeguino automaticamente al verdetto di ieri (di cui peraltro è noto, per ora, solo il dispositivo, non la motivazione). Eventuali decisioni difformi potrebbero poi essere impugnate di fronte alla Cassazione, con ulteriori ricorsi che allungherebbero i tempi e farebbero slittare l’uscita dal carcere degli interessati.
Per risolvere a monte il problema — consiglia qualcuno come l’avvocato Luigi Saraceni, ex deputato che ha affiancato l’Associazione Antigone nella battaglia vinta sull’incostituzionalità della Fini-Giovanardi — sarebbe utile un intervento del Parlamento, con una legge che stabilisca gli automatismi che ora non ci sono. Oppure l’indulto che il presidente della Repubblica sollecitò invano, insieme all’amnistia, nel suo messaggio alle Camere dell’autunno scorso, per affrontare l’emergenza del sovraffollamento dei penitenziari. Appello rilanciato ieri dagli avvocati dell’Unione camere penali.
I numeri del sovraffollamento
Sullo sfondo, infatti, resta la condizione delle prigioni italiane troppo piene: poco meno di 60.000 detenuti rispetto ai 49.000 posti regolamentari che però — secondo i radicali, sempre attenti al problema — nella realtà sarebbero meno. Una situazione stigmatizzata un anno fa dalla Corte europea dei diritti dell’Uomo, quando le cifre erano più alte superando le 65.000 presenze, che diede all’Italia il tempo per mettersi in regola per evitare sanzioni economiche molto gravose. Ora quel tempo è scaduto e a giorni, se il governo non offrirà soluzioni concrete e prospettive migliori, scatterà l’esame dei singoli ricorsi e l’obbligo dei risarcimenti a chi è o è stato ristretto in ambienti troppo angusti.
All’interno della popolazione carceraria, nel 2013, la quota dei detenuti per violazione delle leggi sulle droghe era di 24.273 detenuti, pari al 38,8 per cento del totale. È possibile che adesso quei numeri si siano un po’ ridotti, ma l’incidenza dei reclusi per fatti legati a uso e spaccio di stupefacenti resta molto alta. Ecco la ragione per cui, in ambito governativo, la scelta della Cassazione è stata accolta con un certo sollievo. Per il ministro della Giustizia Orlando «l’uscita dall’emergenza sarà probabilmente più rapida», e per il sottosegretario Ferri «potrà avere un effetto positivo sul problema del sovraffollamento carcerario».
Una boccata d’aria
Di certo per qualche migliaio di detenuti prende corpo l’ipotesi di un ricalcolo della pena al ribasso che, se pure non arrivasse ad esaurire la condanna, potrebbe ugualmente aprire le porte delle prigioni a chi rimanesse con un residuo di pena inferiore ai quattro anni, grazie all’affidamento in prova ai servizi sociali o agli arresti domiciliari. Le soluzioni strutturali richieste dalle istituzioni europee per evitare le sanzioni sono un’altra cosa, e già la prossima settimana bisognerà scoprire le carte e vedere la reazione di Strasburgo. Tuttavia qualunque intervento che possa contribuire alla decongestione degli istituti, anche giurisprudenziale come quello di ieri, è un aiuto a presentarsi con cifre più accettabili. Ecco perché il verdetto della Corte Suprema rappresenta, forse, una boccata d’aria. E la conferma che, anche in questa occasione, la politica è ridotta ad affidarsi ai giudici per risolvere un po’ dei propri problemi.
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