Pochi, resistenti, giovani, precarissimi: il ritratto dei laureati negli anni di crisi

by redazione | 30 Maggio 2014 15:33

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Laureati a meno di 23 anni pren­dono il titolo di stu­dio ter­zia­rio nel tempo pre­vi­sto e sono impe­gnati in tiro­cini per acqui­sire com­pe­tenze, con­tatti, rela­zioni. Quelli che hanno alle spalle una fami­glia da ceto medio rie­scono più di altri a stu­diare all’estero, anche se nell’università rifor­mata il numero di coloro che por­tano la lau­rea in fami­glia per la prima volta resta alto. È il pro­filo dei laureati ita­liani descritto dal Con­sor­zio Alma­lau­rea nel XVI pro­filo pre­sen­tato ieri all’Università di Scienze Gastro­no­mi­che di Bra.

Cali­brato in que­sto modo il pro­filo dei laureati sem­bre­rebbe essere rical­cato sulla base del lau­reato modello sognato dai rifor­ma­tori dell’istruzione di centro-sinistra e di centro-destra che da Ruberti nel 1989, pas­sando per Berlinguer-Zecchino, è arri­vata a Gel­mini nel 2008: gio­vane, effi­ciente, pronto a sgo­mi­tare nella com­pe­ti­zione quo­ti­diana. Il sosia del sog­getto neo­li­be­rale che si trova a pro­prio agio nell’economia della cono­scenza. Basta leg­gere con atten­zione il rap­porto per sco­prire come l’aurora di que­sto novello Pro­me­teo non è mai nata e, anzi, con­te­neva i pre­sup­po­sti del suo fallimento.

Alma­lau­rea regi­stra come la pre­ca­rietà di massa, e la disoc­cu­pa­zione gio­va­nile al 42,7% tra i 15–24 anni, abbiano modi­fi­cato le scelte degli stu­denti e il loro atteg­gia­mento rispetto al futuro. Tanto più a lungo il lau­reato sarà pre­ca­rio, cam­biando lavori che non c’entrano nulla con il suo titolo di stu­dio, tanto più sen­tirà il biso­gno di equi­li­brare l’incertezza del futuro raf­for­zando le sue com­pe­tenze. Agi­sce in que­sto modo il 76% dei 230 mila laureati in 64 ate­nei inter­pel­lati nell’indagine 2013. Per molti sarà una sor­presa, abi­tuati come siamo al dogma «fles­si­bili è bello», ma tra i lau­reati è forte l’esigenza della sta­bi­lità del posto del lavoro (66%), l’aspirazione ad una car­riera (61%), al red­dito (55%). Una sequenza tipica del lavoro pro­fes­sio­nale e del ceto medio, che sem­bra ormai per­duto. Ciò non toglie che i lau­reati riven­di­chino nell’indagine auto­no­mia sul lavoro e indi­pen­denza nella vita.
Ele­menti con­tro­cor­rente nella società della dipen­denza in cui viviamo.

C’è anche un altro fat­tore da con­si­de­rare: su cento laureati ter­mi­nano l’università in corso 41 ragazzi nella trien­nale, 34 del ciclo unico e 52 magi­strali. La pre­ca­rietà ini­zia dun­que prima che in pas­sato, spin­gendo le nuove gene­ra­zioni ad inten­si­fi­care il numero delle espe­rienze di stage o tiro­cini, periodi di prova. Quello dell’iper-specializzazione è un feno­meno con­so­li­dato che oggi trova con­ferma nei com­por­ta­menti delle nuove gene­ra­zioni. I tiro­cini sono cen­trali in tutti i corsi di lau­rea, coin­vol­gono il 61% dei lau­reati di primo livello, il 41% dei magi­strali a ciclo unico, il 56% dei magi­strali. Nel 2004 solo il 20% dei lau­reati aveva fatto que­sta espe­rienza. Anche que­sto dato con­ferma un’attitudine oppo­sta dello stigma inflitto da ex mini­stri dell’università o del lavoro secondo i quali i laureati ita­liani sareb­bero un popolo di laz­za­roni «schizzinosi.

Avere anti­ci­pato il tempo di lau­rea (in media 25,5 anni per il trien­nio, 26,8 per il ciclo unico, 27,8 per i magi­strali bien­nali) non ha mol­ti­pli­cato il numero dei lau­reati. L’Italia resta in fondo alle clas­si­fi­che Ocse, un dato che rivela il fal­li­mento della stra­te­gia «rifor­mi­sta», di stampo pro­dut­ti­vi­stico, adot­tata vent’anni fa. Nella fascia di età 25–34 anni solo il 21% ha la lau­rea rispetto alla media Ocse del 39%. Come in Roma­nia. Una realtà che rende impos­si­bile il rag­giun­gi­mento del 40% di laureati, l’obiettivo della riforma «Berlinguer-Zecchino». Per rag­giun­gerlo gli ate­nei hanno tra­sfor­mato i loro corsi in spez­za­tini pronti all’uso, ma uti­lità sul mer­cato. Una volta sgon­fiata la bolla for­ma­tiva sono dimi­nuite le imma­tri­co­la­zioni: nel 2003 erano 338 mila, 270 mila nel 2012 (-20%).

Oggi solo 3 diplo­mati su 10 si iscri­vono all’università, una realtà che rivela la crisi dell’università e ha pro­dotto fughe in avanti. Visto che un mer­cato per il lavoro cogni­tivo non esi­ste, meglio sce­gliere for­ma­zioni più «pra­ti­che». Que­sta è la ten­ta­zione di chi vuole tra­sfor­mare l’istruzione in una scuola pro­fes­sio­nale sul «modello tede­sco». Alma­lau­rea ha dimo­strato, invece, che la lau­rea garan­ti­sce un tasso di occu­pa­zione di 13 punti mag­giore rispetto ai diplo­mati (75,7% con­tro il 62,6%). Anche que­sto sem­bra un modo per difen­dersi con­tro la pre­ca­rietà e la marea del lavoro gratuito.

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