Nonprofit. Il lato oscuro della lotta alla povertà

by redazione | 3 Maggio 2014 8:15

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Il Mini­stro del Lavoro Giu­liano Poletti ha dichia­rato l’intenzione di «esten­dere a tutti coloro che rice­vono un sus­si­dio e sono in buone con­di­zioni di salute una sorta di ser­vi­zio civile, un ser­vi­zio comu­ni­ta­rio». Poletti si rife­ri­sce ai volon­tari di Expo 2015, tra i quali anche coloro che hanno perso il lavoro e rice­vono il sus­si­dio di disoc­cu­pa­zione potreb­bero essere chia­mati a svol­gere un «ser­vi­zio comu­ni­ta­rio», legit­ti­mando così lo sman­tel­la­mento del wel­fare e sca­ri­cando sulle reti del terzo set­tore e del volon­ta­riato pre­sta­zioni essen­ziali che dovreb­bero essere garan­tite dallo Stato e dai Comuni. Que­sto esem­pio, colto dall’attualità, fa capire quale genere di ambi­guità attra­ver­sino il set­tore non­pro­fit. I volon­tari sono cre­sciuti, almeno fino al 2012, in maniera inver­sa­mente pro­por­zio­nale al calo dell’occupazione. Più aumenta la crisi, più si svi­luppa una forma di wel­fare della crisi o wel­fare delle risorse umane che «com­pensa» le cre­scenti assenze dello Stato alla luce della para­dig­ma­tica gra­tuità della pre­sta­zione lavo­ra­tiva del non­pro­fit.

UN SET­TORE IN ESPANSIONE

Il nonprofit si è svi­lup­pato negli ultimi anni pro­prio a causa della crisi eco­no­mica: 301.191 isti­tu­zioni e orga­niz­za­zioni, quasi un milione di lavo­ra­tori, 4,7 milioni di volon­tari, un fat­tu­rato che supera gli 80 miliardi di euro, pari al 3 per cento del Pil nazio­nale (cen­si­mento 2011). Citato da tutte le parti, eppure impe­ne­tra­bile alle ana­lisi sta­ti­sti­che e alla rac­colta di infor­ma­zioni anche a causa della sua ete­ro­ge­neità e ambi­va­lenza, è un set­tore di cui risulta dif­fi­cile com­piere un’analisi cri­tica, anche per ragioni che scon­fi­nano in com­po­siti con­for­mi­smi, in pru­denze e imba­razzi che hanno a che vedere con l’«etica» o con la «morale». «Che cosa c’è di più ripu­gnante dello schie­rarsi con­tro chi si occupa dei poveri, dei deboli, degli amma­lati e dei bam­bini abban­do­nati?» si chiede infatti Gio­vanni Moro che, da anni stu­dioso del feno­meno, ha deciso di cimen­tarsi pro­prio in que­sta «ripu­gnante» operazione.

Già il titolo pro­vo­ca­to­rio di que­sto sag­gio, Con­tro il non­pro­fit (Laterza, pp. 180, euro 12), prende posi­zione rispetto alla reto­rica che aleg­gia da sem­pre intorno all’argomento. Una mono­gra­fia, dun­que, per svi­sce­rare tabù e incoe­renze del «terzo set­tore» che arriva 15 anni dopo il pio­nie­ri­stico lavoro di Paola Tubaro Cri­tica della ragion non­pro­fit (Deri­veAp­prodi) a con­ferma di come in Ita­lia sia fati­coso affron­tare l’argomento e di come esso risulti invo­luto den­tro i vari ordini discor­sivi del «bene comune», dell’«economia soli­dale», del «senza scopo di lucro».

A parere dell’autore, il varie­gato arci­pe­lago di orga­niz­za­zioni di volon­ta­riato, asso­cia­zioni, coo­pe­ra­tive sociale e fon­da­zioni che com­pon­gono il non­pro­fit pre­senta tre ordini di cri­ti­cità: «Il prin­ci­pale, e fon­da­men­tale, limite (…) è la defi­ni­zione nega­tiva e resi­duale del set­tore non pro­fit». Qual­siasi defi­ni­zione per nega­zione (che sia «non» o «post») risulta infatti equi­voca e ambi­va­lente. Una defi­ni­zione così lasca e non affer­ma­tiva fini­sce per favo­rire l’inserimento di atti­vità, che solo for­mal­mente si pos­sono fre­giare di tale titolo, senza poi esserlo nella sostanza. Il secondo limite sta nel rife­ri­mento alla «filo­so­fia sociale» evo­cata dal set­tore: come ci ricorda Moro, il non­pro­fit viene per la prima volta ana­liz­zato e teo­riz­zato in una ricerca della John Hop­kins Uni­ver­sity a metà anni Novanta (L.M. Sala­mon, H.K. Anhei­mer, The Emer­ging Non Pro­fit Sec­tor: an Over­view, Man­che­ster Uni­ver­sity Press) in 13 paesi, tra cui l’Italia. La «filo­so­fia sociale» che da lì deriva fa perno su alcuni cri­teri, tra i quali il carat­tere pri­vato (sepa­ra­zione dal governo), la non distri­bu­zione di utili ai soci e ai mana­ger, l’autogoverno, il volon­ta­riato. Pro­prio tali cri­teri, rap­pre­sen­tano anche i tre vizi di fondo del non­pro­fit: l’«economicismo», ovvero la fina­lità di pro­durre beni e ser­vizi e di creare occu­pa­zione; la sus­si­dia­rietà alle strut­ture di wel­fare (quindi il suo essere stru­mento di work­fare o, nell’espressione dell’autore, «wel­fare all’americana»); e, infine, l’abuso dell’«ideologia del capi­tale sociale», ovvero l’idea, tutta da veri­fi­care, che costi­tuire un’associazione già di per sé impli­chi un valore sociale, a pre­scin­dere dalle finalità.

Par­tendo da que­sti pre­sup­po­sti con­tra­stanti del terzo set­tore, nella seconda parte del libro Gio­vanni Moro ana­lizza le cri­ti­cità rela­tive al rischio, in ambito ope­ra­tivo, di «con­fu­sione e sovrap­po­si­zione tra sog­getti, campi di atti­vità e moda­lità di azione».

Gli esempi non man­cano e nume­rosi sono quelli ripor­tati nel libro. Che cosa hanno infatti in comune un cen­tro fit­ness e un’organizzazione spor­tiva per disa­bili? Oppure, un’università non sta­tale e il dopo­scuola di un quar­tiere peri­fe­rico dove l’abbandono sco­la­stico è ele­vato? Da un punto di vista giu­ri­dico tutto rien­tra nella cate­go­ria non­pro­fit, ma è evi­dente che le fina­lità sociali ed eco­no­mi­che pos­sono essere distanti anni luce l’una dall’altra. Ne risulta una carenza defi­ni­to­ria, nelle cui lar­ghe maglie facil­mente si pos­sono infi­lare atti­vità di auto-reddito che di sociale hanno ben poco. È neces­sa­ria quindi un’opera di distin­zione, argo­mento a cui è dedi­cata la parte con­struens del libro. Gio­vanni Moro, fon­da­tore della rete euro­pea Active Citin­zen­ship Net­work, par­tendo dalla sua espe­rienza sul campo, ritiene che l’ambivalenza del set­tore non­pro­fit, pur accom­pa­gnato da un alone di cre­di­bi­lità, ne metta a rischio la sopravvivenza.

Ben­ché ana­lizzi il con­te­sto con occhio acuto e cri­tico, l’autore non si sof­ferma in modo appro­fon­dito sulla fun­zione di gover­nance che oggi il non­pro­fit ha assunto in pre­senza delle nuove forme di valo­riz­za­zione eco­no­mica in un con­te­sto di bio-capitalismo cogni­tivo. Se è sem­plice indi­vi­duare l’espansione del set­tore non­pro­fit come sus­si­dia­rio dei ser­vizi sociali in con­se­guenza allo sman­tel­la­mento del wel­fare pub­blico voluto dal potere finan­zia­rio, meno chiaro è il ruolo che lo stesso set­tore sta assu­mendo nel pro­cesso di valo­riz­za­zione, mer­ci­fi­ca­zione e sus­sun­zione capi­ta­li­stica della stessa vita umana.

L’AMABILE CAT­TURA

Que­sto aspetto sfugge all’autore, men­tre va rite­nuto cen­trale pro­prio a par­tire dal tema della gra­tuità del lavoro impie­gato nel set­tore sotto la veste di lavoro volon­ta­rio. L’eco­no­mia ama­bile, giu­sta ed equa, viene con­trap­po­sta agli egoi­smi di mer­cato ma può vice­versa essere inter­pre­tata come una sofi­sti­cata moda­lità di cat­tura della agency umana, cioè del rap­porto tra cul­tura, lin­guag­gio e società. Par­liamo dell’inclusione dei pro­cessi della ripro­du­zione sociale, intesa come dimen­sione essen­ziale dell’agire socio-culturale dell’uomo e della donna. La dispo­si­zione alla cura e le atti­tu­dini rela­zio­nali ven­gono pie­gate a pro­cessi di valo­riz­za­zione, che appan­nano la dif­fe­renza tra pro­du­zione e gene­ra­zione. Il «capi­tale sociale» — che si mani­fe­sta attra­verso alcune carat­te­ri­sti­che umane, quali l’approccio rela­zio­nale, la fidu­cia, la reci­pro­cità, la coo­pe­ra­ti­vità e la gra­tuità — viene messo al lavoro dal set­tore non­pro­fit illu­mi­nando una domanda di fondo: que­sto impiego bio­po­li­tico della vita, aper­ta­mente mer­can­tile ma tut­ta­via basato sull’infingimento dell’immagine del lavo­ra­tore ispi­rato, libero, appas­sio­nato, porta alla sal­vezza oppure alla sva­lu­ta­zione e alla disu­ma­niz­za­zione del lavoro?

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