by redazione | 1 Maggio 2014 9:24
PER cercar di capire che cosa stia accadendo intorno al ministero dell’Interno, bisogna partire dal fatto, abbastanza inedito, di un esplicito conflitto tra il vertice politico e amministrativo e uno dei sindacati di polizia. Non è cosa da poco, perché siamo di fronte ad una vicenda che riguarda diritti fondamentali della persona e la garanzia di sicurezza assoluta dell’incolumità che deve accompagnare ciascuno di noi quando siamo soggetti ad un qualsiasi potere pubblico.
QUESTE non sono parole, ma una delle regole fondative della democrazia. Ministro e Capo della polizia si sono espressi in modo chiaro, ma il Sap ha ribadito con durezza la sua posizione, contestando radicalmente una decisione della magistratura, respinta come parte di un inammissibile linciaggio mediatico.
Qui è evidente il contagio determinato da un clima per cui, di fronte ad una sentenza sgradita, subito ci si sente legittimati a respingerla, dipingendola come il frutto di una prepotenza o, addirittura, di un colpo di Stato. Questa è la cultura alimentata da molte parti, e robustamente confermata in ogni occasione, con un crescendo inquietante, da chi è stato addirittura investito del ruolo di padre delle riforme costituzionali in corso. Un altro pezzo di quella regressione nella quale siamo piombati ormai da vent’anni, e nella quale vicende come questa ci immergono ancor più profondamente.
Per comprendere adeguatamente una vicenda così inquietante, proviamo a mettere in ordine gli argomenti adoperati in questi giorni. Sono fuor di luogo, in primo luogo, i riferimenti al lavoro difficile e pericoloso svolto da poliziotti mal pagati. Fatti veri, ma che non possono divenire giustificazioni o autorizzare franchigie, come ha scritto benissimo Michele Smargiassi, e che divengono riferimenti insinceri in bocca a chi ha condiviso responsabilità di governo, preoccupandosi poco o nulla della condizione degli agenti di polizia. E, soprattutto, dov’era il pericolo di fronte ad un ragazzo di 19 anni che aveva bisogno di aiuto e ha trovato un pestaggio? Colpiscono l’inconsapevolezza, meglio il cinismo, del segretario del Sap che ha parlato di quella morte facendo un paragone con i morti per incidenti e dicendo che, in questi casi,
non si può certo dare la colpa alla strada. È consapevole di quello che ha detto? Quando un ragazzo incontra la polizia è come se si trovasse in una curva pericolosa o su un tratto di strada stretto, per cui può succedergli di tutto? Che razza di rispetto dell’altro compare in queste parole?
Né può convincere l’argomento di chi in qualche grado derubrica l’episodio, lo riduce ad un boomerang che danneggia la polizia stessa. Non siamo di fronte ad un episodio isolato. Da anni, almeno dai fatti sanguinosi di Bolzaneto, si susseguono vicende nelle quali molte sentenze della magistratura hanno accertato responsabilità specifiche anche di dirigenti della polizia. Permane nel profondo del corpo della polizia una cultura che legittima una riserva di reazione violenta che, invece d’essere oggetto di una azione deliberata volta ad estirparla, ha finito con l’essere accettata per non ferire un malinteso “spirito di corpo”, e nella quale si radicano quei comportamenti che non possono essere considerati solo come la reazione di un “cretino”. Non era questo lo spirito con cui era nato il sindacato di polizia, la cui vicenda d’origine ho avuto la ventura d’accompagnare fin dalla sua fase quasi clandestina insieme a quel pioniere che fu Franco Fedeli. La smilitarizzazione e il diritto a costituire sindacati erano visti appunto come la via maestra verso la riconciliazione piena della polizia con democrazia e diritti. Gli ultimi fatti, purtroppo, confermano che quel percorso è stato almeno interrotto, e quante siano le difficoltà che si oppongono alla sua ripresa.
Le parole sacrosante e forti della madre di Federico, Patrizia Moretti, potranno avere il benefico effetto di aprire gli occhi a qualcuno, al di là delle manifestazioni di solidarietà, e di cominciare ad interrompere quella che, negli ultimi tempi soprattutto, sembra divenuta una deriva? Sono parole che ci ricordano la necessità di privilegiare sempre la dimensione dell’umano, il rispetto totale dell’integrità e della dignità d’ogni persona. Sono parole che dovrebbero evocare il dimenticato articolo 54 della Costituzione, dove si parla del dovere di adempiere le funzioni pubbliche “con disciplina e onore”. Se questo avvenisse, non si comincerebbe soltanto a ricostruire l’indispensabile cultura dei diritti, unico possibile contrasto al rischio di nuove vittime, ma si potrebbe guardare ai poliziotti e ai loro diritti liberi del pericolosissimo schema che legittima qualsiasi loro reazione con l’argomento della difficoltà del contesto in cui spesso si trovano ad operare. Ho ammirato molto la compostezza di quel poliziotto che, nel corso di una difficile manifestazione, veniva apostrofato da una ragazza con termini di un classismo che sconfinava nel razzismo. E vorrei ricordare il vice-commissario Roberto Mancini, scomparso ieri per un linfoma determinato dal suo indagare nella Terra dei Fuochi, nei confronti del quale lo Stato ha un debito che va ben oltre i 5000 euro di indennizzo che gli erano stati riconosciuti.
A quest’”altra polizia” va rivolto lo sguardo, perché possa espandersi quella cultura del rispetto che già essa pratica. L’ostacolo vero sta nel vuoto della politica, che oggi può rendere impraticabile questa impresa, già per sé difficile. D’accordo, le dichiarazioni di solidarietà del Presidente del Consiglio e del ministro dell’Interno sono significative. Ma sono il minimo che dovessero fare. E dopo? Non ci si può ritenere appagati, e comportarsi come se quella vergognosa vicenda degli applausi dovesse ormai ritenersi ufficialmente archiviata. Dopo la solidarietà viene il tempo delle azioni concrete, della politica che, in un caso come questo, si vorrebbe davvero ispirata a quella velocità di cui tanto si predica.
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