by redazione | 11 Maggio 2014 17:48
Si è aperta la caccia a Boko Haram, con la benedizione dell’Onu che ha minacciato sanzioni mirate contro i militanti e il sostegno dell’Interpol che venerdì scorso, con una missiva del Segretario generale Ronald K. Noble al presidente nigeriano Jonathan, ha offerto assistenza per il ritrovamento delle oltre 200 adolescenti da più di venti giorni nelle mani degli islamisti vicini ad Al Qaeda. Due le divisioni dell’esercito nigeriano schierate al confine con il Ciad, il Camerun e il Niger che insieme alle forze di polizia coopereranno con una task force internazionale che vede il coinvolgimento di Usa, Gran Bretagna, Francia e Cina.
Eppure, al di là dell’indignazione suscitata a livello mondiale, con gli appelli di Angelina Jolie e della first lady Michelle Obama (che sabato si è sostituita al marito nell’abituale messaggio di fine settimana per condannare il rapimento), si fa fatica a credere che a mobilitare l’intelligence mondiale siano puri sentimenti umanitari. La realtà è un’altra, amara, amarissima: quella per cui il ratto di queste sabine nigeriane, altro non ha fatto che scoperchiare e portare in superficie un’altra guerra sommersa. Quella economica, a difesa di forti interessi soprattutto petroliferi che negli anni hanno fatto della Nigeria la più grande economia del continente noir e un hub indiscusso di compagnie europee, statunitensi, israeliane.
Terra di ricche risorse naturali, la Nigeria, prima tra tutte l’oro nero che gli valgono il titolo di maggior produttore di greggio dell’Africa, e la colonizzazione estera di mercati e territorio nonché lo sfruttamento e lo scempio ambientale. Un eldorado di vanità finanziarie, che è motore e garante di meccanismi di corruzione politica, ineguaglianza sociale, scarsità di investimenti scolastici e sanitari contro i quali nessun esercito è intervenuto e l’intelligence di nessun Paese si è mai mobilitato.
Boko Haram — la cui minaccia alla destabilizzazione delle regioni del Sahel è una realtà nota da tempo — è figlio di questi scempi politici di cui Casa Bianca ed Eliseo (al pari delle altre amministrazioni internazionali) sono complici al fianco di grandi compagnie pubbliche e private con cui, quotidianamente, si spartiscono interessi e affari. E come in altri conflitti, in Afghanistan e nella stessa Africa (come il più recente Mali), il copione si reitera: una guerra economica che si camuffa di accorati appelli umanitari e buoni sentimenti, una guerra innescata dalla minaccia terroristica mondiale di cui allo stesso tempo ne è però l’outcome. Una tragicommedia quasi disgustante (se non fosse per il sincero appello di alcuni importanti esponenti della comunità civile), quella che sta andando in onda via etere in questi giorni e le cui macchine della retorica sentimentalista sono state messe a moto ad arte, ancora una volta vittime di una smemoratezza lunga decenni.
Eni, Shell e Total è il tridente che domina la Nigeria, a cui non ultima per importanza si aggiunge Areva e le sue miniere di uranio con cui condivide gravi responsabilità nei disastri ambientali. Nella regione del Delta del Niger, nonostante a partire dal 1960 il petrolio ha generato guadagni di miliardi, la maggioranza della popolazione vive in povertà e senza accesso adeguato ad acqua pulita o all’assistenza sanitaria. «Le compagnie petrolifere, in particolar modo la Shell Petroleum, hanno operato per più di 30 anni senza che un controllo serio o regole ambientali guidassero le loro attività».
A sostenerlo è il Programma dell’Onu per lo sviluppo (Undp), nel Niger Delta Human Development Report del 2006. Report citato anche da Amnesty International nella sua relazione del 2009 Petrolio, inquinamento e povertà nel delta del Niger (oltreché in più recenti appelli): «Le persone che vivono nelle aree del Delta del Niger in cui si estrae petrolio bevono, cucinano e si lavano con acqua inquinata,ma le loro preoccupazioni non sono prese sul serio e l’industria del petrolio continua a inquinare le risorse ambientali necessarie per la loro sopravvivenza».
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