Sen: «L’India di Modi non mi piace, porterebbe gli affaristi al potere»
ROMA — Amartya Sen alza l’indice della mano sinistra e mostra felice l’unghia, sporcata da una striscia di inchiostro indelebile antifrode: è il segno che ha votato. A 80 anni, è volato da New York a Delhi, da Delhi a Calcutta e da lì ha preso un taxi — «tre ore di viaggio» dice — per raggiungere la sua città d’origine, Bolpur, uno dei centri della cultura e dell’istruzione del Bengala Occidentale, e premere il tasto del voto elettronico. Perché è convinto che le elezioni in corso in India — si concluderanno il 12 maggio e i risultati si sapranno il 16 — siano davvero rilevanti per la democrazia più popolosa del pianeta. «Per la prima volta — sostiene — si sta realizzando l’alleanza tra business e nazionalismo indù nella persona di Narendra Modi. E possono anche prendere il potere». Sul versante opposto, «il partito del Congresso e i Gandhi, Sonia e Rahul, hanno molto sbagliato» e alla fine, dopo dieci anni di governo, sono arrivati «al collasso morale».
Sen, filosofo ed economista, premio Nobel, in questi giorni è in Italia per partecipare a una serie di dibattiti: oggi, a Milano, terrà una lezione su Alimentazione e popolazione in occasione del lancio del Laboratorio Expo organizzato dalla Fondazione Giangiacomo Feltrinelli ed Expo Milano 2015. È uno degli intellettuali più influenti in tema di sviluppo ma anche su questioni filosofiche, sulla democrazie, sulla povertà. In questa intervista, dice di essere «triste» per la situazione in cui è finito il Congresso: «Per me è ancora il partito della lotta per l’indipendenza dalla Gran Bretagna, il partito laico che si è opposto alle divisioni etniche e religiose». Negli ultimi anni è però precipitato: «Prima ha perso il talento del buon governo, poi la capacità di governare, poi la volontà di governare e infine è arrivato al collasso morale».
La dinastia Nehru-Gandhi (storicamente la spina dorsale del partito) «ha avuto un ruolo rilevante nel declino del Congresso»: dice che «è una famiglia ingiustificatamente potente». Nel senso che al momento dell’indipendenza, nel 1947, Jawaharlal Nehru era un padre della patria ed era giusto che fosse primo ministro. Anche sua figlia Indira Gandhi aveva un grande senso del potere. Ma poi le ragioni per affidare alla dinastia il comando sono via via venute meno e oggi Sonia che incorona Rahul, quasi 44 anni, a candidato primo ministro è poco credibile. «Conosco Rahul — dice il professore — da quando studiava al Trinity College di Cambridge. È una persona piacevole, ma non è mai stato interessato alla politica. Nel tempo è migliorato ma prima di candidarsi a guidare il Paese avrebbe dovuto fare un’esperienza da ministro o da governatore di uno Stato. Ora, invece, dà l’idea di essere un peso leggero più di quanto non lo sia in realtà». Sen pensa che i Gandhi siano più attenti di altri agli aspetti umani della politica. Ma, fondamentalmente, alimentano il declino del Congresso. «Attenzione, però: anche dopo l’Emergenza (autoritaria, ndr ) imposta da Indira nel 1975-77, il Congresso sembrava finito, poi riuscì a ricostruirsi. Io non ne scriverei ancora il necrologio».
Sen sa che le elezioni saranno vinte da Modi, il candidato a primo ministro del Bjp, il partito nazionalista indù. Non può sapere però se riuscirà ad avere i seggi sufficienti per governare da solo. Spera di no: «Mi auguro che sia costretto a una coalizione, ammesso che riesca a trovare alleati: serve qualcuno che lo controlli». Il suo timore non sono solo il nazionalismo e le divisioni religiose che Modi potrebbe suscitare. La preoccupazione maggiore è che l’ideologia del Bjp e i numeri (l’80% degli indiani è di religione induista) si mettano al servizio del mondo degli affari, senza più bilanciamenti. «Tutti siamo a favore del business – afferma –. Ma nessuno vuole essere dominato dal business». La crescita economica — spiega — è importante. Ma le arretratezze sociali dell’India, soprattutto nell’istruzione e nella salute, sono un problema chiave. «Non sono solo questioni di standard di vita. Già oggi sono un elemento centrale di freno alla crescita stessa». E a suo avviso vanno messi al centro della discussione: per questo dall’anno prossimo programma di passare del tempo in India, tra un corso di filosofia un anno, uno di economia l’anno dopo, un progetto di matematica e uno di medicina, tutti alla sua università, Harvard. Si annunciano dibattiti di fuoco.
Sulla questione crescita attraverso liberalizzazioni opposta a interventi a favore di istruzione e salute, infatti Sen è già stato criticato, con clamore, dall’altro grande economista indiano che insegna in America, Jagdish Bhagwati, della Columbia, sostenitore della prima impostazione, più aperta al business. «È un bravo economista — dice Sen —. Ma vorrebbe diventare consigliere di Modi. E forse ci riuscirà». La vera differenza — aggiunge guardandosi l’unghia — «è che lui è diventato americano mentre io sono rimasto indiano e faccio la coda per votare».
Danilo Taino
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