Ilva L’imperatore senza più impero

by redazione | 1 Maggio 2014 10:02

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Per uno strano scherzo del destino, è venuto a man­care alla vigi­lia del 1 mag­gio, la Festa dei Lavo­ra­tori. Lui che, bluf­fando, si è sem­pre defi­nito «un datore di lavoro, non un padrone». Non un capi­ta­li­sta, ma «un impren­di­tore indu­striale». Emi­lio Riva, classe 1926, patron dell’Ilva e della Riva Fire, è morto ieri a Milano all’età di 87 anni.

Era da tempo malato di can­cro. Il ragiu­natt, sopran­nome dato­gli dai suoi con­cit­ta­dini, cono­sciuto come «l’ingegnere dell’acciaio», dal 1954 in poi mise in piedi un vero e pro­prio impero. Nel 1964, installò, primo al mondo, la mac­china a colata con­ti­nua. Lascia al fra­tello Adriano, a figli e ai nipoti, un’azienda che oggi conta 38 sta­bi­li­menti in Ita­lia e nel mondo (dal Canada alla Fran­cia, dal Bel­gio alla Ger­ma­nia, dalla Spa­gna alla Tuni­sia), che impiega circa 25 mila dipen­denti e che per decenni ha rea­liz­zato fat­tu­rati a nove zeri.

L’apice arrivò con l’acquisizione, nell’aprile del ’95, dell’Ilva di Taranto, il più grande side­rur­gico d’Europa. In un anno, tra il ’94 e il ’95, la pro­du­zione incre­mentò da 6 a 14,6 milioni di ton­nel­late e quella di lami­nati da 5 a 12,8 milioni di ton­nel­late. Del resto, quando arrivò in riva alla città dei Due Mari, mise subito in chiaro le cose: «Io so fare acciaio, di tutto il resto non m’interessa». L’arrivo a Taranto però, segnerà anche l’inizio della fine. Di un modo di fare indu­stria, tutto ita­liano, senza regole, con­trolli, rispetto della legge e dei diritti dei lavo­ra­tori. Tri­ste­mente cele­bre, a tal pro­po­sito, la vicenda della palaz­zina Laf, salita agli onori della cro­naca nel ’98: il luogo dove Riva fece «con­fi­nare» un gruppo di lavo­ra­tori che rite­neva troppo sin­da­ca­liz­zati. Ope­rai pagati rego­lar­mente ma senza lavo­rare: chiusi in una palazzina-lager, dalla mat­tina alla sera; molti di loro non si sareb­bero mai più ripresi psi­co­lo­gi­ca­mente. Per que­sta vicenda Riva verrà con­dan­nato e il caso pas­serà alla sto­ria come il primo di mob­bing sul lavoro in Italia.

Poi, nel luglio 2012, il tempo dei «gio­chi» e delle con­ni­venze con il sistema Ilva (a cui hanno par­te­ci­pato poli­tici, sin­da­cati, gior­na­li­sti, e una città per troppi anni col­pe­vol­mente silente e assente) fini­sce: la magi­stra­tura seque­stra gli impianti dell’area a caldo, arre­sta Riva e gli altri com­po­nenti della fami­glia (oltre al diret­tore dello sta­bi­li­mento e a un gruppo di «fidu­ciari»): il reato è pesan­tis­simo, asso­cia­zione a delin­quere fina­liz­zata al disa­stro ambientale.

Oggi l’Ilva è com­mis­sa­riata sino al 4 ago­sto 2016. Il futuro, più che incerto, è nero. Il com­mis­sa­rio Enrico Bondi non trova le risorse per il piano di risa­na­mento ambien­tale della fab­brica, né per quello indu­striale oltre che per la manu­ten­zione degli impianti. Dalla pros­sima set­ti­mana, per 2500 lavo­ra­tori si ricor­rerà al con­tratto di soli­da­rietà per un’ora al giorno. Ci sarà un taglio sugli straor­di­nari, si fer­me­ranno impianti per man­canza di com­messe. E’ morto un uomo. Il suo impero ancora no. Ma ha i mesi contati.

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